Si è conclusa ieri, col ritorno a New Delhi, la visita ufficiale del primo ministro indiano Narendra Modi alla volta del Giappone, la prima fuori dalla «comfort zone» dell’Asia meridionale. L’incontro tra Modi e Abe era carico di aspettative sia in India che in Giappone, considerando l’evidente comunione di intenti che lega, almeno superficialmente, Delhi e Tokyo: districarsi dalla morsa di Pechino nell’area che incombe in svariati campi, dall’energia all’influenza geopolitica fino alle annose recriminazioni territoriali (le isole Senkaku per il Giappone, i territori himalayani al confine per l’India).

Il meeting, al di là della retorica sui legami storici e spirituali evidenziati da Modi, si è sviluppato su una serie di accordi commerciali e di partnership strategiche. Giappone e India hanno siglato l’impegno, da parte di Tokyo, a raddoppiare gli investimenti nel subcontinente, portandoli alla cifra record di 34 miliardi di dollari in cinque anni: fondi che, secondo i piani, saranno utilizzati per modernizzare le infrastrutture indiane preparando il campo a una maggiore penetrazione di compagnie giapponesi attive sul territorio (seguendo l’esempio di Suzuki, legata a una partnership «storica» con l’indiana Maruti nella produzione di automobili e motocicli).

Sintetizzando il cambio di passo rispetto alla precedente amministrazione dell’Indian National Congress, Modi ha spiegato che l’India aspetta investimenti stranieri stendendo un «red carpet» al posto di un «red tape»: fuor di metafora, Modi sta snellendo le procedure burocratiche indiane per gli investitori stranieri, da un lato liberando il paese dai «lacci e lacciuoli», dall’altro – criticano i suoi oppositori – depotenziando le leggi di tutela ambientale, in linea con le politiche ultracapitaliste del «suo» Gujarat. Per gli altri due grandi progetti dai quali ci si aspettava un accordo definitivo – l’importazione di tecnologia giapponese per realizzare treni super veloci in India e una cooperazione nel settore del nucleare civile – le firme sono state rimandate a data da destinarsi, almeno fino all’estate del 2015.

In campo militare, i due paesi hanno ribadito la volontà di tenere esercitazioni navali congiunte con gli Usa, in aggiunta a un più generale rafforzamento dei legami in tema di difesa.
Un messaggio trasversale al vicino cinese, ribadito da un improvvido – secondo buona parte della stampa indiana – parallelismo tratteggiato da Modi: «Il mondo è diviso in due gruppi» ha spiegato NaMo. «Uno crede nell’efficacia delle politiche espansionistiche, l’altro nello sviluppo.

Dobbiamo decidere se il mondo debba cader preda dell’espansionismo o se vogliamo guidarlo sul sentiero dello sviluppo e creare opportunità per portarlo verso nuove vette». In tutta risposta, nella mattinata di martedì, il cinese Global Times ha bollato la minaccia di un’alleanza indo-giapponese «una folle fantasia generata dall’ansia di Tokyo di fronte alla crescita cinese».

La situazione, sia per Modi sia per Abe, è delicata. Il primo, eletto a furor di popolo avanzando promesse di sviluppo fulmineo, ha bisogno di investimenti stranieri, risultati da presentare a un elettorato già indispettito a soli 100 giorni di governo. E la cooperazione col «nemico» cinese appare inevitabile.

Il secondo, bisognoso di forti alleati che lo spalleggino contro Pechino, deve trovare una valvola di sfogo per guidare la ripartenza della locomotiva giapponese, la fase due della cura «Abenomics» iniziata nel 2012: l’India rappresenterebbe una soluzione – temporanea – ad entrambe le problematiche.
(Ha collaborato Marco Zappa)