«Sono un rifugiato, uno che cerca asilo. Queste non sono parole facili, anche se l’abitudine di sentirle le fa sembrare tali». Nei suoi dieci romanzi e nei suoi racconti Abdulrazak Gurnah, britannico originario di Zanzibar cui è andato lo scorso Nobel per la Letteratura, ha costruito intrecci e personaggi che rivelano la complessità di questa condizione esistenziale, stretta in una formula che rischia di farla apparire scontata.

Atterrato a Londra proveniente da Zanzibar attorno alla metà degli anni novanta, il protagonista del suo sesto romanzo, Sulla riva del mare (traduzione di Alberto Cristofori, La nave di Teseo, pp. 382, € 20,00) dice di chiamarsi Rajab Shaaban e finge di non parlare una parola di inglese. L’agente di frontiera che lo interroga, credendo di non essere capito, si sfoga: «Non c’è niente di etico, solo avidità. Nessun timore per la propria vita o la propria sicurezza, solo avidità. (…) Lei non appartiene a questo posto, non dà valore alle cose a cui noi diamo valore, non le ha pagate nel corso delle generazioni, e noi non la vogliamo. Le renderemo la vita difficile, le faremo patire delle umiliazioni, forse le faremo anche delle violenze».

Diritti infra-umani
Pubblicato in inglese nel 2001, By the Sea intravedeva in queste parole la successiva spirale di criminalizzazione dei migranti nel Regno Unito, l’«ambiente ostile» evocato da Theresa May, lo scandalo Windrush del 2018 e altre infamie di stato. Shabaan non è così sfortunato, ma a sessantacinque anni è costretto a fare esperienza delle umiliazioni tipiche della sua condizione, ciò che chiama «la mezza vita di uno straniero», come vivere in un centro di detenzione per «fastidiosi casi privi di valore che bisognava tenere sotto controllo». I suoi sono «diritti infra-umani», secondo lo studioso Dave Gunning, miseri diritti grazie ai quali il migrante viene riconosciuto come vittima, e poco più. Shaaban se ne rende conto: «i miei bisogni e i miei desideri erano prevedibili e prima o poi avrei imparato a rendermi intellegibile».

Ma un giorno porta allo scoperto la sua reale condizione di anziano colto e ricco di esperienze, dall’inglese raffinato, intenzionato a ricordare, raccontare e ricostruire come è arrivato fin lì. Senza pretese. «…Non sono a conoscenza di una grande verità che muoio dalla voglia di insegnare, né ho vissuto un’esperienza esemplare che illuminerà le nostre condizioni e i nostri tempi. Ma ho vissuto, ho vissuto…».

Nei ricordi e racconti di Shaaban, Gurnah tesse un magistrale esempio del potere della letteratura nel ricostruire l’alterità in tutte le sue sfaccettature, quella «individualità complessa» che, secondo la sociologa Avery Gordon, si tende sempre a negare a chi appartiene a gruppi umani sottomessi dalla Storia. Il talento affabulatorio del narratore, che intreccia il canone occidentale e quello islamico, si dispiega da una scatolina di pregiato legno aromatico di origine cambogiana, unico ricordo portato con sé nel viaggio e ovviamente sequestrato alla dogana, ma la cui apertura funge da vaso di Pandora per un labirinto infinito di storie tra la costa orientale dell’Africa e Arabia, Persia, Malesia e India.

C’è inoltre la Storia che più delle altre ha travolto la semplice vita di Shaaban, la parabola del colonialismo europeo. Quando la guardia di frontiera gli parla di «valori», la sua esperienza lo porta a riflettere sul fatto che «il mondo intero aveva già pagato per i valori dell’Europa, anche se per molto tempo aveva pagato e basta, senza arrivare a goderseli». Ripensando all’istruzione ricevuta, descrive lo strisciante potere dell’ideologia coloniale, e la sua fine: «nei loro libri leggevo resoconti poco lusinghieri della mia storia, e poiché erano poco lusinghieri mi sembravano più veri delle storie che ci raccontavamo (…) col tempo incominciarono ad apparire nella loro storia dei grandi buchi.

Essa incominciò a crollare e a sbriciolarsi sotto gli assalti e una triste ritirata divenne inevitabile». I suoi ricordi si intrecciano con quelli di Latif Mahmud, altro protagonista e voce narrante della seconda parte del romanzo, partito per studiare nella Germania dell’est, grazie alle acrobazie della Tanzania indipendente tra i due blocchi della Guerra Fredda, e poi fuggito a Londra, dove è diventato docente di letteratura e stimato poeta.

Entrambi, sebbene in modo diverso, vittime del razzismo coloniale e dei regimi liberticidi post-indipendenza, si incontrano perché Latif viene chiamato per fare da interprete a Shaaban. Quale legame li unisca, e cosa abbiano in comune nel loro passato, sarà la terza e ultima parte del romanzo a rivelarlo, in un confronto fra i due personaggi carico di tensione.

Nell’arazzo narrativo di Gurnah, le piccole storie dei due personaggi e delle loro famiglie – vicende di orgoglio ferito, tradimenti meschini, sacrifici segreti, pentimenti e sofferenze – si innestano nella grande Storia: «È un posto triste, il paese della memoria, un deposito buio con pavimenti marci e scale arrugginite dove a volte si passa il tempo frugando fra cose abbandonate». Le parole prendono vita nella loro materialità: «Salha», dice Shaaban parlando della defunta moglie, «mi piace il modo in cui bisogna aspirare la fine del nome, come se lo si risucchiasse o lo si inghiottisse».

Anche il silenzio ha un suo spazio significativo, e del resto ciò che non può o non deve essere detto è un elemento ricorrente in altre opere di Gurnah, da Admiring Silence a The Last Gift. Se la rievocazione del nome di Salha ricorda le parole di Nabokov in Lolita, il valore che il silenzio ha in Sulla riva del mare rimanda al Bartleby di Melville, l’enigmatico personaggio in cui i due martoriati protagonisti a più riprese si specchiano: «Adoro l’impassibile autorevolezza della sconfitta di quell’uomo, la nobile futilità della sua vita», dice Latif. Alla componente meta-letteraria, Gurnah, che è anche uno stimato studioso di letteratura, somma una cifra stilistica che evita i funambolismi a effetto per affidarsi piuttosto a tratti leggeri che finiscono per incarnarsi in personaggi sfumati, dai contorni incerti e quindi decisamente credibili.

Traduzione rivista
Incerta, in fondo, è la loro condizione esistenziale, umana ancor prima che (post)coloniale, di una fragilità che si intuisce nel lirismo di alcune descrizioni; così Shaaban descrive il suo interesse per i mobili: «ci appesantiscono e ci tengono a terra, e ci impediscono di arrampicarci sugli alberi e di ululare nudi mentre il terrore per la nostra inutile vita ci sopraffà».

La prima traduzione di Alberto Cristofori di questo romanzo (Garzanti 2002) viene rivista in più punti nell’edizione della Nave di Teseo, che progetta la pubblicazione di tutta l’opera dello scrittore: il titolo della prima parte, «Relics», diventa giustamente «Reliquie» e non più «Relitti», mentre il ricorrente «by the sea» viene sempre tradotto come il titolo, senza variare. Altri dettagli tuttavia ancora non convincono, per esempio espressioni colorite ed eccessivamente semplificate: «Oh bloody hell, bloody stupid hell» ridotto a un blando «dannazione», o «you’re taking the piss» stemperato in «lei mi sta prendendo in giro». Non si capisce per quale motivo, poi, la lingua kiswahili venga ridotta a «dialetto» nel risvolto di copertina.