«Non me ne vado, non mi dimetto». Il premier iracheno Adel Abdul Mahdi non cede alla folla che a Baghdad in nome di pane, lavoro e lotta alla corruzione riempie da settimane piazza Tahrir e sale agli ultimi piani di ciò che resta dell’alto edificio dove diversi anni fa c’era il “Ristorante Turco”. Lo stesso accade nelle città sciite nel sud del paese. Il primo ministro sottolinea che i mali che affliggono l’Iraq vengono da lontano, dall’invasione anglo-americana del Paese nel 2003. E che senza un’alternativa politica concreta le dimissioni del governo provocherebbero «un vuoto che porterebbe l ‘Iraq verso l’ignoto». Non è quello che pensano le migliaia di iracheni che ogni giorno scendono in strada a manifestare nonostante la feroce repressione delle forze di sicurezza che ha già fatto almeno 260 morti. Da inizio della settimana sono stati uccisi almeno 13 manifestanti.

 

Anche chi protesta non cede, perché non ha nulla da perdere. Centinaia di giovani hanno bloccato la raffineria di petrolio di Al-Shanafiyah, nella provincia di Diwaniya impedendo ai dipendenti di andare al lavoro. Altre manifestazioni si sono avute all’ingresso della raffineria di Nassiriya. Una folla di decine di persone ha fermato le autocisterne che trasportavano benzina, provocando carenze di carburante nella provincia di Dhi Qar. A Baghdad la polizia irachena ha sparato in aria per disperdere i manifestanti che avevano bloccato un ponte. Adel Abdul Mahdi ha chiesto ai manifestanti di sospendere gli atti di sabotaggio e gli scioperi, sottolineando che il paese non è in grado di sopportare che le proteste paralizzino l’economia. E come gesto di buona volontà ha ordinato alle forze di sicurezza di revocare il coprifuoco notturno imposto il 28 ottobre. Le strade dell’Iraq però restano colme di dimostranti che non hanno alcuna intenzione di mettere fine alla protesta.

 

Il premier, dietro le quinte, lavora a una soluzione politica della crisi. Spera di poter salvare il governo con un’intesa tra i leader sciiti rivali Moqtada al Sadr, capo del blocco Al Sairoon, e Hadi al Ameri, alla guida dell’alleanza Fatah. Il tentativo è difficile. Sadr, più nazionalista, è favorevole a contenere l’influenza dell’Iran, chiede con forza le dimissioni dell’esecutivo e la convocazione delle elezioni anticipate sotto la supervisione delle Nazioni Unite con l’esclusione delle forze politiche tradizionali. Ameri, che ha una grande influenza sulle Unità di mobilitazione popolare, vicine a Tehran, invece sostiene dietro alle manifestazioni ci sarebbero Stati Uniti e Israele. Al momento queste differenze non appaiono colmabili ma se le due parti andranno al compromesso, l’Iraq potrebbe cominciare a percorrere la strada delle riforme richieste dai manifestanti.

 

Proprio gli Stati uniti nelle ultime ore hanno sparato altre bordate contro l’Iran. Il segretario di stato Mike Pompeo su twitter ha affermato che «Il popolo iracheno e quello libanese vogliono riavere i loro paesi» e che «Iraq e Libano meritano di trovare la propria rotta» ma sono «paralizzati dalla guida suprema iraniana Ali Khamenei».