Abdellah Taïa, scrittore marocchino da anni residente in Francia, è insieme a Franco Farinelli e a Richard Grusin uno dei tre keynote speaker del convegno «Transitions: Moving Bodies and Images» organizzato a Palermo dal Necs – European Network of Cinema and Media Studies a cura di Alessia Cervini dell’Università di Palermo. Domenica 13 giugno alle 16 Taïa terrà una conferenza dal titolo «Queering Transmediterranean Identities» che sarà trasmessa in diretta dalla pagina facebook del Sicilia Queer filmfest.

Queer, Mediterraneo, identità: tre questioni centrali nel tuo lavoro. Su cosa verterà la conferenza di domani?
Partirò dalla mia esperienza personale di marocchino, arabo e omosessuale per allargare immediatamente il campo verso altre identità che riguardano le persone che erano insieme a me in Marocco negli anni Settanta e Ottanta, a cominciare dalla mia famiglia e dal mio quartiere, fino ad estendere il discorso a tutto il bacino del Mediterraneo. Mi sembra che la società sia sempre più queer di quanto non si creda, e la presenza di leggi che impediscono l’affermazione di certe identità non ne frena certamente l’esistenza. Proverò a rievocare un tempo in cui non ero capace di riflettere sugli argomenti che oggi, a 47 anni, posso affrontare. Quando penso alla mia infanzia mi rendo conto di essere cresciuto con l’idea che fossi l’unico omosessuale nel mio quartiere o addirittura in Marocco, ma oggi so che non era affatto così, che le definizioni del termine queer nella società araba e mediterranea sono molto più vaste e che le identità queer esistono al di là di qualsiasi definizione politica. Proverò a tornare agli anni Ottanta e Novanta per vedere e far vedere le persone con cui sono cresciuto: mia madre ad esempio, eterosessuale e completamente ignara di qualsiasi aspetto della cultura lgbtq, che per farci uscire dalla povertà in cui versavamo (vivevamo in undici in tre stanze) aveva preso il ruolo dell’uomo al posto di mio padre, sottraendosi alla posizione che la società le aveva attribuito in quanto donna.

Vorrei riportare le affinità evidenti e la comunanza di sensibilità (al plurale) che esistono tra il Marocco e la Sicilia anche ad altri paesi del bacino del Mediterraneo, e nel farlo proverò a mettere tra parentesi ogni sguardo intellettuale perché non voglio applicare idee occidentali a persone e situazioni che ignorano tutto questo. Preferisco partire dalle realtà sensibili e dell’immaginario in cui vivono le persone. Se si scava – e non c’è neanche bisogno di scavare tanto – si vede subito che ci sono identità queer in molte società.

Nel tuo romanzo «L’esercito della salvezza» citi esplicitamente la figura di Michel Foucault. Mi chiedevo quale influenza avesse avuto sul tuo lavoro quella generazione di intellettuali francesi che tra gli anni Ottanta e Novanta è stata falcidiata dall’AIDS, e alla quale Christophe Honoré ha dedicato uno spettacolo teatrale che si chiama Les idoles.
Nessuna: provengo da un ambiente molto povero, e la cultura intellettuale e libresca all’occidentale non era per persone come noi. Quando avevo dodici, quindici anni e fino ai miei venti anni non sapevo chi fossero Michel Foucault, Hervé Guibert, Jean Genet o altri. E siccome credo che ciò che determina il percorso intellettuale della vita sia quel che hai vissuto fino ai vent’anni, non sono cresciuto con l’idea che i libri potessero salvarmi. In Marocco i libri appartenevano alla borghesia, e per essere un intellettuale dovevi parlare francese: quelli che parlavano soltanto arabo non erano altro che dei poveri. Il francese ci schiacciava, era la lingua dei marocchini ricchi, degli arroganti, di quelli che non ti guardavano in faccia e si mettevano a parlare tra di loro affinché la gente come me non comprendesse. Vengo da un mondo in cui non smettevano di dirci che eravamo doppiamente poveri: non soltanto perché non avevamo soldi, ma anche perché eravamo assoggettati dai ricchi e dal potere in quella povertà che ci confinava nella lingua araba. Provo sempre ad attingere a quel periodo le strategie per sopravvivere e non farmi schiacciare, in quanto persona queer e in quanto scrittore gay.

Sono cresciuto sentendomi dire che visto che ero povero non potevo parlare francese, per questo a quindici anni ho capito che avrei dovuto impadronirmi di quella lingua, padroneggiarla meglio di loro e farne qualcosa di diverso: parlare di tutti quelli che sono messi ai margini dal potere marocchino, elaborare strategie di sopravvivenza che non riguardavano solo le persone omosessuali o queer, ma tutti i poveri – la mia famiglia, le mie sei sorelle, le prostitute del mio quartiere, gli ubriaconi, quelli che entravano e uscivano dalla prigione, quelli che facevano finta di andare in moschea e che andavano di notte nei bordelli… Tutto quello che ho scoperto più tardi sulla cultura gay occidentale, o anche leggere Michel Foucault, Pasolini o Jean Genet non ha fatto altro che confermare le intuizioni che avevo e percepivo attorno a me sin da piccolo. Adoro Guibert e tutti quegli altri autori, ma non sono stati loro a indicarmi le strategie di sopravvivenza. A spiegarmi che per sopravvivere dovevo scrivere non è stato Foucault bensì le prostitute del mio quartiere, mia madre che gridava tutto il tempo e che manipolava mio padre, che andava dalle streghe… In Marocco ci sono molti mendicanti, e ognuno ha una sua strategia per manipolare il passante: attraverso una canzone o qualcosa che ti entra subito in testa e ti obbliga a impietosirti e a mettere la mano in tasca per dar loro qualcosa. Io mi sento come uno di questi mendicanti che elabora una strategia per sopravvivere, uno di quelli che vi sembra gentile e sempliciotto ma che è molto più avanti di quanto non crediate.

È appena uscito in Italia per Funambolo edizioni il tuo romanzo «La vita lenta», che mi ha fatto pensare a un film di Philippe Faucon, «La désintégration»: in entrambi è questione del rapporto con una società in cui non ci si sente mai al proprio posto, solo che – a differenza di quanto avviene nel film – invece di perseguire la via del terrorismo il tuo protagonista si predispone a degli incontri, si mette alla ricerca dell’amore.
Vivo in Francia da ormai ventidue anni e ho vissuto in Marocco per venticinque anni, dunque ho un’esperienza che mi consente di parlare e di criticare la Francia con la legittimità che è data dal tempo. Ho visto cinque diversi presidenti della repubblica e ho assistito alla crescita del razzismo politico nei confronti dei migranti, degli arabi, dei musulmani. Il romanzo parla di un periodo molto preciso, quello che a Parigi segue gli attentati terroristici del 2015, e di come a partire da quel momento siamo entrati in un’epoca di sospetto perenne e generalizzato, di come sia nata una diffidenza continua tra le persone che vivono in uno stesso spazio che si chiama Parigi. Di come si diventa sospetti, nostro malgrado, per la società e per la politica francese semplicemente perché si è arabi, musulmani, per l’aspetto o per il nome.

Mounir, il protagonista del romanzo, può anche essere omosessuale, può anche amare Zurbarán e Botticelli, ma dal 2015 qualsiasi cosa non basta più per essere accettati nella società occidentale e nella società francese. Da un momento all’altro c’è qualcosa che dice «non sei come noi», e se hai l’aria di un arabo e somigli a quelli che minacciano la Francia non è sufficiente che tu conosca Truffaut e Bresson. Il libro parla di questo clima di sospetto che parte dalle persone e a poco a poco fa entrare l’intera società francese in uno stato di paranoia che la distoglie completamente dalla realtà. Una paranoia collettiva di una società che non ha fatto i conti con la questione degli stranieri, del razzismo, del colonialismo. Tutti questi grandi temi sono ancora oggi presenti: non sono stati affrontati dalle società occidentali e di tanto in tanto riemergono.

Dal 2015 questo avviene in modo diretto e frontale, per alcuni politici è diventato addirittura un programma per ottenere voti. Il libro parla di questo e di due persone che invece di aiutarsi l’un l’altra si distruggono a vicenda: un marocchino gay di 40 anni che è riuscito ad avere un appartamento di 40 metri quadrati in rue de Turenne, nel quartiere chic di Parigi; e la sua vicina di casa, Simone, una vecchia signora bianca, francese, che sopravvive da non si sa quanto tempo in uno studio di 14 mq con il bagno sul pianerottolo. Lei è ancora più invisibile di lui nella società francese. E queste due persone, entrambe diversamente marginalizzate da quella società, invece di allearsi arrivano quasi a uccidersi. È come se il potere mantenesse i poveri nella marginalità instillando veleno tra di loro, perché passino il tempo a scontrarsi invece di occuparsi dei grandi problemi che sono causa della loro situazione. Un po’ come quello che avveniva in Marocco con la lingua francese, che introduceva uno scarto tra due parti della popolazione. Il libro parla del rapporto tra Mounir e questa società che lo percepisce come un potenziale pericolo, e dell’amicizia/guerra con questa vecchia signora francese che è completamente abbandonata da un mondo che considera le persone anziane come un problema. Questa è una delle cose che più mi sciocca in Francia: gli anziani che vagano e parlano da soli per strada, non perché siano folli ma per l’incredibile solitudine che accompagna le loro vite. Il libro prova a tenere insieme queste due cose. Cosa succede tra queste due persone? La lacerazione, la guerra, ma anche la potenzialità di rinnovare l’amore: ho scritto questo romanzo per provare a chiedermi come si possa uscire da questo veleno che l’epoca instilla tra le persone e rinnovare la possibilità di una nuova forma di amore reciproco.

Il tuo è anche un lavoro sull’autofinzione che attraversa varie arti: «L’esercito della salvezza» è ad esempio un romanzo che hai trasformato in film, esordendo alla regia al Festival di Venezia nel 2013. Vorrei che ci parlassi di quel che ti ha portato dalla letteratura al cinema e sapere se hai altri progetti, visto che finora è successo una volta sola. Che ruolo ha avuto il cinema nella tua formazione?
Sin da piccolo ho sempre pensato il cinema come un’arte davvero democratica. Nelle nostre società i libri riguardano purtroppo una parte già socialmente elevata della popolazione, e persino il mio aspetto fisico non coincide con quello di chi tiene aperto un libro per leggerlo – non so come ho fatto a cominciare a leggere e diventare scrittore. Invece il cinema mi ha salvato, ci ha salvato. Negli anni Settanta e Ottanta (quando l’accesso all’immagine era molto diverso da oggi e bisognava aspettare settimane per poter vedere un film in televisione) sono cresciuto nell’attesa del film egiziano che veniva trasmesso alla televisione marocchina il venerdì sera. Bisogna immaginare una stanza di quindici metri quadri in cui nove persone guardano un melodramma egiziano che parla di sentimenti, di amore, di povertà, di cose vicinissime a noi anche se ambientate in Egitto.

Ho immediatamente compreso che tutto quel che succedeva in quel piccolo schermo, e tutte quelle persone che parlavano, ero io, anche se si chiamavano Omar Sharif, Faten Hamama, Soad Hosny: quelle star ero io, non c’era distanza tra di noi perché li vedevo soffrire, piangere, danzare e cantare all’interno di realtà non distanti da quella in cui vivevo. Sin dalla fine degli anni Settanta la forza del cinema egiziano è entrata nel mio cervello come una struttura narrativa, come una strategia di messinscena presente anche nella vita quotidiana: ripetevo le scene che avevo visto nei film già prima di scrivere e dirigere un film. Sin da piccolo mi sono immaginato come un réalisateur, un regista. In arabo si dice mokhrij, che significa «colui che fa uscire le cose», letteralmente. Il termine in arabo ha una forza straordinaria, e tutti possono capire quel che significa: far uscire le cose, non lasciarle all’interno. In francese significa: «colui che fa diventare le cose reali», che le trasforma da sogno in realtà. In arabo è ancora più forte: le cose si tirano fuori, è quasi un atto irreversibile. A partire dai dodici anni mi sono detto «diventerò mokhrij», e su questo ho costruito la mia vita. Mi sentivo legittimo grazie ai film egiziani e grazie al fatto che guardavo i film insieme agli altri, con le mie sorelle, e che piangevamo tutti. Non era un’esperienza destinata solo a una persona gay o queer: il cinema egiziano era uno strumento che ci queerizzava tutti, anche gli altri amavano le stesse immagini che io, gay, amavo.

Finora ho fatto un solo film ma sto lavorando ad altri progetti; il problema è che il cinema prende moltissimo tempo, per ragioni meramente economiche. Anche per L’esercito della salvezza ci è voluto molto tempo, perché chi finanzia i film cerca narrazioni classiche ed è molto difficile che una sceneggiatura che non presenta una struttura narrativa classica sia accettata come tale. La mia scrittura si fonda sull’ellissi, i miei libri non ruotano attorno a un nodo che poi si scioglie, sono piuttosto dei frammenti, delle cesure continue, e non è facile per chi si aspetta una sceneggiatura in cui i personaggi parlano e spiegano tutto, con un approccio estremamente psicologico. Fare L’esercito della salvezza esattamente come volevo è stata una grande fortuna: inizialmente i miei produttori non comprendevano il perché della cesura temporale a metà del film e volevano obbligarmi a dare delle spiegazioni, a psicologizzare attraverso le parole, che per me invece diventano solo chiacchiere inutili. Il potere nel cinema risiede in quello che le immagini possono dire mille volte più di quanto non facciano le parole.

A settembre sarai a Palermo per ricevere il Premio Nino Gennaro, assegnato ogni anno a persone che si siano distinte in ambito internazionale per la difesa dei diritti delle persone lgbtqi+. Consideri il tuo come un lavoro militante?
I libri, il cinema, persino una canzone richiedono un coinvolgimento personale: io non scrivo né faccio film per diventare un artista, lo faccio per intervenire nella società. Tutti i miei libri prendono la loro struttura narrativa dalla realtà e dalla vita vera; ho fatto il mio coming out in Marocco, ho dato interviste a giornali e riviste a Casablanca sin dal 2006 e da allora ho scritto più volte in difesa dei diritti lgbtqi+ in Marocco, nel mondo arabo e anche nel mondo occidentale, perché mi sembrava la conseguenza logica del mio impegno in quanto scrittore e in quanto regista. Sono senza dubbio un militante: altrimenti non avrei scritto nel 2009 un libro come L’omosessualità spiegata a mia madre. Penso che ci sia bisogno di incrementare questo lavoro nel mondo arabo perché nel 2021 si pensa che i problemi della comunità lgbtqi+ siano risolti nel mondo mentre non è affatto così, ci sono ancora molte cose da fare. Sono estremamente onorato di ricevere questo premio e di seguire l’esempio di un militante e poeta come Nino Gennaro.