Il mio partner più grande, quello a me più caro? Marcello Mastroianni. Ammirevole, sempre. Prima di tutto, perché non si prendeva per Marcello Mastroianni. Poi, perché era uno innamorato della sua professione, un accanito del cinema. In terzo luogo, perché era dotato d’estrema modestia. E quarto, grande merito, amava le donne: ma sempre con discrezione, senza cercare gli applausi. A lui son riconoscente anche per la scelta di non aver ceduto alle lusinghe Usa, ma di essere rimasto qui, tra Italia e Francia, con me, con Philippe Noiret e Ugo Tognazzi, con noi della ‘banda’ gloriosa, cresciuta attorno a Marco Ferreri, che ha sorpreso e spaesato il cinema per alcune memorabili stagioni».

Nella storica leçon de cinema, messa in streaming dalla Cinémathèque Française de Paris il 18 maggio, giorno della scomparsa del grande attore che in dicembre avrebbe compiuto 95 anni, Michel Piccoli, docile e allarmato a ogni domanda del conduttore, l’allora direttore della Cinémathèque Serge Toubiana, replica senza fronzoli né opacità: le sue risposte son martellate nel marmo.

Fisico sempre impressionante, se pure ingrossato, dentro la camiciona bianca, gigante a tu per tu, che fino all’ultimo non ha avuto cellulare né agente, ma un telefono fisso e, massimo della modernità, un fax, Piccoli è stato protagonista, in occasione della bella restrospettiva a lui dedicata 7 anni fa, non solo d’una lezione di cinema, ma di vita. Grande attore. Grande uomo. Le regole di vita, che per lui erano tutt’uno con la scena e con il set, sono sgorgate cristalline, inalterate rispetto ai propositi ascoltati in altri recenti incontri, da quello con Jean Gili al Festival di Annecy Cinéma Italien a quelli con Nanni Moretti al Torino Film Festival o, ancora, alla Cinémathèque Française. Ne risulta un autoritratto d’attore, rigoroso, imperioso: imperioso perché rimasto puro, innocente. «Il meno narciso dei grandi attori», lo ha definito Toubiana. Qui, alcuni princìpi e momenti della sua vita d’artista: l’ABC di Michel Piccoli.

Ascoltare
Una delle grandi angosce della nostra vita è questa: che cosa occorre fare per restare se stessi ? Mi son sempre interessato alle passioni, alle solitudini di chi mi era intorno: soprattutto di persone che, come me, sono molto discrete su di sé e gli amici. Sono uno che ama talmente ascoltare: non dire, ma far dire.

Attore
Qualunque sia la sua ambizione o la sua paura, la sua frustrazione o il suo sogno, mi son sempre chiesto: a che cosa può servire un attore? Non è creatore del film: se è fortunato, o se ne è capace, può entrare in osmosi con l’autore: nella sua intimità, nei suoi silenzi. Ecco, se rimaniamo discreti, il privilegio che ci accordano è di diventare autori per contagio.

Scrittori
Amo chi ha la passione della creatività: molti scrittori sono così. Ho conosciuto poco prima della sua morte Jean-Marc Roberts, autore del romanzo Affaires étrangères, da cui Pierre Granier-Deferre ha tratto nell’81 il film che ho interpretato, Une étrange affaire. Era discreto, preciso, appassionato di cinema, di letteratura, era stato per tutta la vita un lavoratore instancabile: uno di grande autorità, che sapeva sorridere, che amava ascoltare. Quel film è per me il ricordo di una lunga intimità con uno scrittore e un regista con cui non avevo mai lavorato: amicizie discrete, che non portano a nulla se non alla morte.

Restar segreti
È un’immensa qualità nella vita. Che scarseggia negli attori. Non si dovrebbe mai confessare quel che si dovrebbe confessare: essere in solitudine, sempre. Una specie di dittatore di sé. Il personaggio che interpreto per Granier-Deferre alla fine esce dalla porta e sparisce. Nel film non si dice mai la verità, si è soli, come nella vita. Quel che amo di più in questo film, nel mio personaggio, è la mia sparizione.

Inizi
Perché attore? Non ho avuto scelta. Sono nato in una famiglia borghese. Nato perché mio fratello è morto a 3 mesi. Se no, non sarei mai esistito: i miei non avrebbero continuato a provare. Già a 9 anni mi hanno messo in una scuola di buon livello, con un professore che ci dava un libro e poi ci invitava – ‘Lavorate un po’ seriamente !’ – a trarne una pièce teatrale. A 20 anni, passata in ritardo la maturità, ho detto a mia madre che avrei voluto fare l’attore. ‘Bene’, mi ha risposto, ‘segui un corso e vediamo’. Teatro (la compagnia Renaud-Barrault) e cinema, da allora, sono andati avanti insieme. Ho cambiato vita e cambiato famiglia: zio e zia (musicista, come mio padre), mai avuto figli. Mia madre aveva sentito subito che mi sarei fatto inghiottire dall’altra coppia di ‘genitori’.

Teatro
Strindberg, Duras, Ibsen, Shakespeare, Pirandello … La scena è stata sempre una scuola per me: mi ha dato la voglia e l’energia di imparare. Non soltanto recitare. Ogni volta, davanti a un nuovo testo, a un nuovo autore, mi chiedevo: perché hanno scritto questo? Anche nel cinema, mi piace rubare i segreti ai registi: per quale motivo hanno scelto di girare quel film? È qualcosa che mi appassiona moltissimo. Ho cominciato subito a voler essere vicino a quel che gli autori fanno e vivono: sono stato un eterno studente, votato unicamente a imparare.

Koltès

L’ho conosciuto – risponde alla richiesta, dalla sala, della regista Claire Denis – all’inizio della sua parabola teatrale con Chéreau: Bernard-Marie Koltès era lo scrittore di Patrice Chéreau. Molto amabile, molto elegante, molto omosessuale, molto modesto, ma capace di furori improvvisi di fronte a soluzioni sceniche inattese dei suoi testi. Ammirevole anche nei furori. Sempre molto energico. Sono stato suo amico, fino alla sua morte. È uno dei più grandi scrittori (non solo di teatro) francesi. È morto. Se non l’avete letto, fate uno sforzo.

Buñuel
Sono riuscito a lavorare con autori d’eccezione, magari in piccoli ruoli. Non ho mai brigato per essere il primo della lista, al di sopra di questo o quell’altro. Son restato così tutta la vita. E sono stato attore per due registi d’eccezione: Godard e Buñuel. Con Buñuel ho avuto una gran faccia tosta: ero affascinato dai suoi film, era venuto a teatro a vedermi in un piccolo spettacolo d’un suo amico, li ho invitati entrambi a cena, poi gli ho inviato un telegramma chiedendogli d’essere nel suo prossimo film. Che faccia tosta, avevo. Ma Buñuel era uno di quelli che hanno lo humor del loro potere, del loro genio.

Godard
Mi aveva cercato per Le Mépris. Ci siamo incontrati nel suo ufficio, dove mi ha porto il libro di Moravia. ‘Grazie, ma l’ho già letto’. ‘Allora ci vediamo tra un mese’. Ci siam ritrovati e mi ha messo il cappello in testa. Da Godard ho imparato molto. A volte era severissimo. Anche brutale. Umoristico e feroce. Una volta è stato d’un’aggressività inaudita, quando durante le riprese non ricordavo la battuta. Mi ha urlato: ‘Meglio tu vada aiutare i tecnici a fare il travelling’ (risata del pubblico). Non ridete, aveva ragione. Un attore deve, come minimo, sapere la parte.

BB
In Le Mépris, ho avuto la fortuna d’avere come partner Fritz Lang e Brigitte Bardot. Sì, BB – è qui in sala ? –, d’una disciplina esemplare. Era una vera attrice. Dico: era, perché non vuole più esserlo, ma era una grande attrice. Con noi, Lang, contento di fare il film, entusiasta di Godard e viceversa: non gli diceva una parola. Diventare amico di Lang: ve l’immaginate?

Ferreri/Sautet
Ferreri e Sautet mi avevan visto in teatro. Son seguiti Les choses de la vie e Dillinger è morto. Mi son detto che l’uno sarebbe stato un trionfo, l’altro un disastro. Ho fatto in modo che ognuno di loro vedesse il film dell’altro. Sautet: ‘Magnifico, non riuscirò mai a realizzarne uno così’. Ferreri: ‘Ohibò, che film sentimentale’. In realtà, sia pure diversi, erano grandi ammiratori l’uno dell’altro.