Come è nata la sua versione di Jobs?
Non mi interessava tentare l’approccio biografico. Ho memorizzato il libro di Isaacson, ma quello è uno strepitoso lavoro giornalistico di un professionista che è stato dirigente della Cnn e editor di Time. Io non lo sono, il mio mestiere è un altro, c’è la differenza che corre fra un quadro e una foto, il mio lavoro è di dipingere.

Ha scelto di limitare rigorosamente l’ambientazione
Mi piacciono gli spazi angusti e i tempi compressi, e mi piace restare dietro le quinte, in questo caso letteralmente. Avevo identificato una serie di momenti nella vita di Steve che mi sembravano interessanti, punti di frizione con altre persone: sua figlia, il suo amministratore delegato John Scully, Woz (Steve Wozniak principale progettista Apple, ndr) e così via. Ho pensato di drammatizzare questi rapporti in periodi di tempo compressi e in spazi claustrofobici. E di raccontare la mia storia interamente, non semplicemente in tre atti ma in tre sole scene, tutte in tempo reale. Significa che in ognuna, i 30 minuti per il pubblico sono gli stessi 30 minuti per i personaggi sullo schermo.

Quasi una narrazione shakesperiana…
Penso che avere in mente Shakespeare quando scrivi ti possa solo demoralizzare in uno stato di completa paralisi (ride) e non riuscirai a buttare giù neanche una parola. Detto questo, è vero che non è casuale una struttura di «ascesa del re. Esilio del re. Ritorno del re.»

E non necessariamente un eroe…
No ma neanche un personaggio «negativo». Credo che quando scrivi un antieroe come questo non puoi permetterti di giudicare il suo carattere, devi pensarlo nell’atto di perorare la propria causa davanti a dio per entrare in paradiso. Devo trovare aspetti di quel personaggio che mi ricordino me stesso, che io sarei pronto a difendere.

Aveva conosciuto Jobs?
Non l’ho mai incontrato di persona ma ci siamo parlati al telefono tre volte. La prima è stata per complimentarsi su un episodio di West Wing che gli era piaciuto. La seconda per offrirmi un tour della Pixar sperando di convincermi a scrivere un film per loro. La terza volta mi ha chiesto di aiutarlo nella stesura di un discorso che avrebbe dato per la cerimonia di laurea a Stanford. Non so cosa sarebbe accaduto se avessimo collaborato su quel film perché non ho molta tolleranza per le escandescenze. Ma posso dire che le dozzine di suoi collaboratori con cui ho parlato alla fine ammettono che al di là di tutte le leggende aveva il potere di renderli migliori.

Come è stata la collaborazione con Boyle?
La sceneggiatura in definitiva è solo una collezione di parole che ha bisogno di un genio visivo per dargli vita e Danny Boyle lo ha fatto abbondantemente. E poi è straordinariamente bravo a lavorare con gli attori.

Qual è in definitiva la sua analisi di Jobs?
Credo che in fondo Steve sentisse di non essere degno di amore. Per questo alla fine del film dice «sono difettoso», quasi un difetto di fabbrica. Ma suppliva alla carenza percepita progettando prodotti che non solo erano fabbricati impeccabilmente, ma che la gente avrebbe amato. Si sa che la gente ha un rapporto emotivo coi propri prodotti Apple. C’è gente per cui solo aprire la confezione rappresenta un’esperienza emotiva. Secondo me questo spiega il suo perfezionismo nella progettazione. Se la gente avesse amato questi prodotti era come se avesse amato lui.

Dopo Zuckerberg è il secondo magnate digitale di cui si occupa. Cosa pensa di ciò che hanno creato?

Trovo che i social media siano fantastici per molti versi, per come ci danno accesso a informazioni che non conosceremmo altrimenti. Credo anche che abbiano il potenziale per una straordinaria crudeltà. E poi sono un incubatore per notizie tendenziose che riescono a trasformare in verità. Come padre di una ragazza di 14 anni mi inquieta come lei e i suoi coetanei usino i social network per «curare» la propria vita, postando solo le versioni migliori di se stessi. Credo ci sia qualcosa di fondamentalmente inautentico in questo. A questo proposito, devo dire che uno dei miei momenti preferiti del film non l’ho scritto io. È quel materiale d’archivio all’inizio con Arthur C. Clarke che, probabilmente negli anni ‘60 o ’70, parla al bambino e gli spiega come un giorno un computer soddisferà tutti i suoi bisogni quotidiani. Lievemente preoccupato il padre del ragazzo chiede: «Ma non ci sarà il rischio di pregiudicare i rapporti umani?» E trovo impagabile quella piccola pausa che fa Clarke, come a dire «Ah, non ci avevo pensato…ma sicuramente andrà tutto bene».

Nel film Wozniak a un certo punto dice a Jobs che non è necessario scegliere fra grandezza e la moralità. È così?
È una buona domanda. Non lo so ma credo abbia ragione Woz. E se per caso lo fossero, personalmente consiglierei di optare sempre per la seconda. A meno che abbiate una cura per il cancro, scegliete sempre la decenza.