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Aacm, il jazz è collettivo

Aacm, il jazz è collettivoNella foto John Coltrane

Pagine/Un volume sulla storia dell’associazione di Chicago Dopo anni di disinteresse, l’editoria italiana è tornata a riscoprire la musica afroamericana con la pubblicazione di una sfilza di libri. Tante le biografie dei grandi interpreti

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 14 dicembre 2013

C’è stato un lungo periodo durante il quale l’editoria italiana si è completamente disinteressata al jazz. Se si esclude la meritoria battaglia solitaria di Stampa Alternativa, con la collana Jazz People diretta da Gianfranco Salvatore, il resto era buio o quasi. Da qualche anno, invece, assistiamo a una produzione editoriale consistente.

Valide e aggiornate storie generali del jazz (in poco tempo sono state pubblicate quelle di Alyn Shipton, Stefano Zenni ed in autunno la Storia del Jazz di Ted Gioia per Edt) e monografie di qualità affollano gli scaffali delle librerie. Va detto però che l’attenzione si concentra su grandi del passato oppure su autobiografie di contemporanei di successo (Marsalis, Bollani, Rava e Fresu). Manca un punto di vista sulle esperienze collettive, quasi che il jazz debba per forza essere letto solo attraverso le vite, meglio se spericolate, dei suoi singoli eroi. L’intreccio tra vicenda individuale e storia collettiva sembra disperdersi così nei racconti personali e nelle celebrazioni dei «maestri», senza che si colga il fatto che sempre il jazz si è nutrito ed è stato influenzato dai cambiamenti e dalle tensioni sociali.

L’annuncio della prossima traduzione italiana a cura dell’editore milanese Auditorium del libro di George Lewis sull’Aacm (A Power Stronger Than Itself. The Aacm and American Experimental Music, The University of Chicago Press, 2008) è dunque una bella notizia che va a colmare un vuoto e ci auguriamo inverta la tendenza. Il libro è nella sua edizione originale un poderoso tomo di 680 pagine nel quale viene ripercorsa la storia della mitica associazione, dalla fondazione nel 1965 ai giorni nostri: conoscerla è indispensabile per comprendere gli ultimi quarant’anni di sviluppo del linguaggio afroamericano. Ed è indispensabile anche per ricollocare la storia del jazz secondo parametri che ne riconoscano e valorizzino la natura collettiva e comunitaria. Nella disperazione dei ghetti americani degli anni Sessanta, fatta di alienazione ed emarginazione, una nuova generazione di musicisti ha preso coscienza ed ha assunto un ruolo di leadership culturali e si è presa la responsabilità di un’azione che unisse la difesa della propria autonomia e integrità artistica con una funzione sociale. La Aacm (Association for the Advancement of Creative Musicians) di Chicago è un’organizzazione dove l’attività didattica, lo scambio intergenerazionale, lo sviluppo di una musica di ricerca saldamente intrecciata con l’orgoglio afrocentrico e la presenza sul territorio hanno dato frutti incredibilmente maturi. Portandola in scuole, chiese, centri sociali e università la Aacm ha creato per il jazz uno spazio che non fosse solo quello dell’intrattenimento nei locali notturni. Fondamentali per tutta la musica a venire sono state le acquisizioni che i musicisti Aacm hanno conquistato: dalla ricerca sul suono a nuove forme di improvvisazione collettiva. Dal South Side di Chicago ai teatri di tutto il mondo una nuova musica è risuonata con forza, raccogliendo intorno allo slogan «Great Black Music» una intera tradizione e abbattendo steccati stilistici e pregiudizi. Musicisti come Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Lester Bowie, Anthony Braxton, Henry Threadgill, Wadada Leo Smith, Fred Anderson, Leroy Jenkins e lo stesso George Lewis hanno scritto e continuano a scrivere pagine memorabili, mentre i più giovani Corey Wilkes, Dee Alexander e Nicole Mitchell sono la migliore testimonianza di come quell’impulso non si sia affievolito.

L’esperienza dell’Aacm insomma racconta una storia diversa da quella di una sfrenata competitività e di un narcisistico individualismo che informano un certo immaginario cucito addosso al jazz. Coeve e simili, pur nelle necessarie e salutari differenze, sono le esperienze del Bag (Black Artists Group) a St. Louis e della Underground Musician Union, in seguito Union of God’s Musician and Artsist Ascension (Ugmma), a Los Angeles guidata dal pianista Horace Tapscott raccontate magistralmente da Benjamin Looker (Point From Which Creation Begins: The Black Artists’ Group of St. Louis, Missouri Historical Society Press, 2004) e Steven Isoardi (The Dark Tree-Jazz and the Community Arts in Los Angeles, University of California Press, Berkeley 2006). Insieme formano una trilogia del jazz collettivo e dimostrano l’enorme spinta culturale e politica che ha agitato e percorso gli anni Sessanta e Settanta rinnovando radicalmente non solo il linguaggio ma anche modi di stare insieme, di produrre e di promuovere la musica.

La lettura di queste storie ci aiuta anche a considerare la vicenda del jazz strappandola a una visione tutta incentrata su New York e sul business editoriale e discografico ad esso collegato. Una visione, quest’ultima, che non aiuta a capire una storia complessa e articolata fatta di scambi e influenze generatrici di dinamiche sociali e culturali. Accanto a quelle esperienze non farebbe male puntare lo sguardo anche a quello che è successo in Europa, a partire dalla rigogliosa fucina olandese e dalla fertile diaspora sudafricana.

Un altro clamoroso ritardo editoriale è quello che riguarda la vita e l’opera dei musicisti protagonisti della svolta free. In attesa di poter parlare dell’appena pubblicato Space Is the Place. La vita e la musica di Sun Ra di John Szwed (Minimum Fax) – il geniale bandleader ampiamente sottovalutato – consoliamoci con la tardiva traduzione di Quattro vite Jazz di A.B. Spellman (Minimum Fax). Il volume (scritto nel 1966) racconta in presa diretta vittorie e sconfitte nella lotta per l’affermazione della propria estetica di Cecil Taylor, Ornette Coleman, Jackie McLean ed Herbie Nichols. Un testo che parla del jazz «dalla parte dell’artista», denunciando le responsabilità dell’apparato economico e produttivo musicale.

Una bella notizia viene dalla nuova collana Sonografie diretta da Francesco Martinelli per Edizioni Ets che annuncia di volersi occupare delle musiche nate dopo il 1959. Dopo la riedizione del libro di Derek Bailey sull’improvvisazione, il secondo volume è sul sassofonista Albert Ayler (Albert Ayler. Lo spirito e la rivolta). Scritto dal tedesco Peter Niklas Wilson dopo una seria ricerca sulle fonti e un viaggio di sei mesi negli Usa, il libro è uno studio sobrio e accurato sullo sfortunato musicista. Il testo tratta nella prima parte la biografia dell’artista per concentrarsi nella seconda sulla sua musica con un scrittura chiara e di facile comprensione anche per i non specialisti. L’autore, anch’egli musicista, è scomparso nel 2003 ed ha scritto apprezzati studi su Ornette Coleman e Anthony Braxton.

Altro capitolo riguarda la documentazione dei pensieri dei musicisti attraverso interviste che non abbiano l’episodicità e la fretta del format del magazine cartaceo o online. Raccogliere dalla viva voce dell’artista le sue riflessioni e i suoi ricordi è fondamentale per una seria storiografia. Con questo spirito Marcello Lorrai ha realizzato con il contrabbassista William Parker il denso William Parker. Conversazioni sul jazz (Auditorium, 2010). Musicista centrale nella scena afroamericana di New York, Parker attraversa tutta la storia del free dagli esordi nella «loft scene» con l’entusiasmo e le libertà creative degli anni Settanta (da ascoltare il ricco cofanetto Centering, NoBusiness Records) fino all’approdo alla corte di Cecil Taylor e alla maturità di leader, non solo musicale, degli anni Novanta e Zero. La forza del volume sta nell’averlo realizzato attraverso lunghe e ripetute interviste. Lorrai ha lavorato come un paziente documentarista che entra con rispetto nella vita e nell’intimità di chi vuole raccontare, lo mette a proprio agio e ritorna più volte su alcuni concetti per sviscerarli fino ad estrarne il massimo di verità. Tutto il contrario di tante interviste che circolano oggi, realizzate via e-mail oppure in fretta in un camerino. Un metodo quello di Marcello Lorrai che è contenuto esso stesso e che il lettore interessato al jazz non può che condividere.

 

 

 

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