«Tre giorni di musica, amore e giochi»: ricorda niente? Tre anni fa un gruppo di giovani milanesi che nella vita fanno vari mestieri pensarono di mettere su qualcosa che a Milano non c’era: un festival informale e fuori dagli schemi, all’aperto, in un posto piacevole e non troppo grande, organizzato da non-professionisti dell’organizzazione, senza sponsor, pensato per divertirsi, loro innanzitutto, e non per fare soldi. L’idea era che Zuma, questo il nome, richiamasse non più di una cerchia di amici e di amici di amici, come una festa, e che fosse una iniziativa one shot. Però senza vera gran pubblicità Zuma 2017 andò decisamente al di là delle attese, segno che di una cosa così c’era bisogno: e che fare con i soldi che inaspettatamente erano avanzati? Dunque bis nel 2018, stessa formula con riscontro ancora maggiore.

E DI NUOVO quest’anno, da venerdì a domenica, sempre a Cascinet, cioè la cascina Sant’Ambrogio, sul margine di Milano verso Linate. Sabato sera culmine con tanta gente da porre già a Zuma il problema di come andare avanti e gestire il proprio successo senza snaturarsi. Entrare a Zuma e sentirsi riportati alla controcultura degli anni che furono è tutt’uno. Non mancano i richiami espliciti: il logo del festival è un occhio con le gambe che camminano; al palco più piccolo, ricavato in una struttura in muratura nel cortile, si è aggiunto quest’anno un palco più grande, nel prato, denominato non senza humour «Palco Lambro». C’è l’area campeggio e lo spazio per i massaggi.

MA È PROPRIO il concetto generale di Zuma che profuma di controcultura: una controcultura che a Milano ha una gloriosa tradizione (Mondo Beat, Barbonia City, Re Nudo, Aktuala, Parco Lambro, Macondo…), e che sotto una metropoli apparentemente agli antipodi è come una corrente che continua a scorrere e che a Zuma riaffiora. Senza niente di nostalgico – anche se c’è chi per tre giorni balla ostinatamente con movenze che sembrano arrivare direttamente da un viaggio in India degli anni sessanta – e senza eccessi, anzi con una tranquillità sicura, e con molto di vitale. Non mancano nel programma del festival delle proposte che di una certa controcultura sono degli emblemi musicali: con percussioni e vibrafono, Lino Capra Vaccina dà vita assieme ad un oboista ad una musica minimalista-meditativa che è perfetta per questo contesto; come è perfetto il canto armonico del gruppo di Roberto Laneri, anche in pieno giorno, col sole a picco. Ma, in un cartellone di qualità, c’è di tutto, dalle touareg Tartit al Tenore di Orgosolo: «È la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere», dice sorpreso al pubblico, con effetto involontariamente comico, uno dei quattro giovani cantori sardi: è oltre mezzanotte di sabato, e nel cortile della cascina c’è ressa di giovani che li ascoltano con attenzione; sarà certo anche la prima volta che si esibiscono con sullo sfondo proiezioni psichedeliche: ma del resto cosa c’è di più lisergico del canto a tenore?

LA PRIMA SERA invece a mezzanotte c’è un intermezzo a sorpresa con una coppia di cantanti di impostazione lirica che fanno O sole mio e Funiculì funiculà: ci sta perfettamente, un successone. A Zuma si va sicuri di avere delle sorprese, e lo sono i newyorkesi Sunwatchers, fra free jazz e rock, e i friulani Maistah Aphricah, un mix di afro, jazz, hardcore, funk, elettronica, psichedelia. Don Moyé, da mezzo secolo batterista dell’Art Ensemble of Chicago, si esibisce in trio con Hartmut Geerken, ottantenne tedesco dall’aria fricchettona che si è occupato di oriente e di free music, e con Dudu Kouaté, polistrumentista senegalese, e bergamasco di adozione, da un paio d’anni cooptato nell’AEOC: ad ascoltarli ci sono fan di vecchia data di Don Moyé, così come ragazzi che alla fine, entusiasti, chiedono in giro chi sono quei musicisti, e non hanno mai sentito nominare l’Art Ensemble.