Mentre a Vienna si discuteva a vuoto sul futuro della Siria stando ben attenti a non toccare la questione Isis, Baghdad veniva ancora violentata dallo Stato Islamico: il sangue di 69 civili si è riversato sui quartieri sciiti della capitale dopo gli attacchi che tra mercoledì e venerdì hanno ucciso oltre 150 persone.

Sono state 4 le esplosioni, solo una per ora rivendicata dall’Isis: la prima ha colpito un mercato a Shaab, seguita da un kamikaze saltato in aria all’arrivo dei soccorsi; la seconda un mercato ortofrutticolo a Dora; la terza e la quarta un altro mercato e un ristorante a Sadr City.

Massacri che la comunità internazionale non sente come propri, non intende affrontare. Perché altrimenti l’International Syria Support Group (Onu, Ue, Usa, Russia, Golfo, Cina, Turchia, Iran) continua a non discutere di una delle prime fonti di instabilità del Medio Oriente? Come si può discutere di pace senza uno sforzo comune contro un nemico in teoria comune? Perché obiettivi e interessi sono altri.

Vienna ne è l’esempio: annunciato come il meeting che avrebbe aperto ad un nuovo round negoziale sulla Siria, si è concluso con un nulla di fatto camuffato. Le potenze mondiali si sono accordate sull’essere d’accordo: sono concordi sulla necessità di una tregua stabile, sono concordi sull’importanza di un governo di transizione, sono concordi sul bisogno di riattivare il dialogo. Ma strumenti nemmeno l’ombra: si dice solo che si vorrebbe formare un governo di transizione entro il primo agosto e che si escluderanno dal negoziato i gruppi che violano la tregua.

La dichiarazione finale del segretario di Stato Usa Kerry racconta la confusione del fallimento: «Ci siamo accordati sulle conseguenze per le azioni delle parti che hanno un’agenda diversa dal trovare un accordo e raggiungere la pace». «Voglio sottolineare i progressi compiuti in ogni direzione: cessazione delle ostilità, allargamento dell’assistenza umanitaria e processo politico», gli fa eco il ministro degli Esteri russo Lavrov. Un’apoteosi di ipocrisia e nonsense che lascia la Siria spaccata.

A margine dell’incontro Riad Hijab, leader dell’Hnc, federazione delle opposizioni, dà il colpo finale: la comunità internazionale, o meglio occidentale, ha optato per un approccio militare tramite il rifornimento di armi alle opposizioni. Se confermato, non è proprio il primo passo verso la tregua soprattutto se le armi arriveranno in mano al neonato fronte settentrionale, 14 gruppi armati impegnati nelle zone più calde del conflitto, Aleppo e il confine con la Turchia. Tra loro brillano Ahrar al-Sham, salafiti protagonisti di operazioni congiunte con i qaedisti di al-Nusra, e Jaish al-Islam, milizia islamista che come la precedente gode dello status di opposizione legittima all’aleatorio tavolo del negoziato.

Non poteva poi mancare l’entrata a gamba tesa della Turchia: il presidente Erdogan minaccia un’intervento in solitaria perché frustrato per gli attacchi dell’Isis nel paese. Il caos che regna nelle stanze della diplomazia mondiale, figlio degli interessi di parte, fa il paio con le eterne discussioni sul destino del presidente Assad.

Da Vienna esce pochissimo e si trova qualcosa solo scavando nelle dichiarazioni ufficiose. Come quella del ministro degli Esteri francese Ayrault che individua nei primi di giugno una possibile data per la nuova Ginevra. O quelle di un diplomatico anonimo che riporta dei tentativi di separare al-Nusra dalle opposizioni considerate legittime. O, infine, quelle di altre fonti che vedono nell’approccio Usa un’accettazione della volontà russa a salvare Assad.