Assistere ad un concerto al Teatro Olimpico è sempre di per sé qualcosa di speciale: e anche per i musicisti che hanno la fortuna di essere invitati a Vicenza ad esibirsi nel teatro palladiano si tratta di un tipo di esperienza che non è cosa di tutti i giorni. Joe Lovano e Bill Frisell, che nel segmento centrale di Vicenza Jazz (26esima edizione, 11-22 maggio) sono stati protagonisti di due serate proposte all’Olimpico, si guardano intorno ammirati, e Frisell non riesce a trattenere un “incredibile!”. In alcuni momenti sembrano quasi subire l’attrazione delle scene che hanno alle spalle, concepite alla fine del cinquecento per l’inaugurale Edipo Re e che da quattro secoli abbondanti sono lì dietro gli archi del monumentale palco: sembrano quasi avere la tentazione di incamminarsi e fare un giretto per le vie di Tebe rese con straordinario illusionismo prospettico da Vincenzo Scamozzi.

IL MAGNIFICO scenario dell’Olimpico certamente stimola Lovano, e certamente lo stimola la qualità dei musicisti e l’organico non ordinario del suo Trio Tapestry, formato tre anni fa, in cui ad affiancare il suo sax tenore ci sono pianoforte e batteria: Marilyn Crispell è una gran pianista, che può suonare free con grande densità così come è capace di belle aperture melodiche e che comunque non è mai banale; Carmen Corsano è (il nome non tragga in inganno) un batterista sulle scene fin dagli anni settanta e con una lunga consuetudine accanto a Lovano, con un drumming “magro”, semplice ed essenziale, che l’assenza del basso mette ancora più i risalto, e che in tempi in cui vanno batteristi di tutt’altro genere è decisamente suggestivo. In un interplay molto aperto, spazioso, viene fuori un Lovano libero, non convenzionale, fluido, sensuale, pieno di estro e di slanci lirici. Lovano utilizza anche un piccolo set di gong, e un brano è riservato al tarogato, strumento ad ancia diffuso in aree della musica popolare est-europea (e spesso utilizzato da un improvvisatore radicale come il tedesco Peter Brotzmann).

Joe Lovano Trio Tapestry, foto Roberto De Biasio

In trio con Tony Scherr al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria, Frisell comincia con Days of Wine and Roses di Henry Mancini, continua con Misterioso di Monk, poi con brani propri, fra cui un omaggio ad Hal Willner (quarant’anni fa Giulietta degli spiriti interpretata in solo dal chitarrista nel geniale album Amarcord Nino Rota allestito da Willner fu un passaggio importante nell’affermazione di un Frisell ancora poco conosciuto). Con l’accompagnamento discreto di Scherr e Wollesen, il suo è tutto un gioco di finezze, di cesello, all’insegna della delicatezza, senza mai alzare i toni. Inanella i brani senza soluzione di continuità: e se non fosse che la sua è una lectio magistralis di pacatezza, si potrebbe dire che procede a rullo compressore, tanto che il pubblico solo dopo cinquantacinque minuti di orologio trova un varco per infilare un applauso. Una rara, leggera increspatura c’è con degli accenti rock-blues di sapore africano (si tratta di Baba Drame di Boubacar Traoré), poi Frisell passa a What The World Needs Now di Bacharach, e chiude con We Shall Overcome come bis. Un maestro della chitarra contemporanea: anche se in un set come questo c’è un qualche rischio di eccessiva “reductio ad unum” emotiva. Ma l’Olimpico l’ha acclamato senza riserve.

Con l’accompagnamento discreto di Scherr e Wollesen, lo stile di Frisell è tutto un gioco di finezze, di cesello, all’insegna della delicatezza, senza mai alzare i toni.

CAMBIO di cornice, la sala maggiore del moderno Teatro Comunale, ma anche cambio di registro – verso un jazz decisamente indirizzato all’intrattenimento – con il contrabbassista Avishai Cohen, israeliano di nascita e newyorkese di adozione. Anche vocalist, Cohen ha un bel tocco, è brillante, ma il suo trio, con Elchin Shirinov al piano e la giovane Roni Kaspi alla batteria, è un po’ troppo compiaciuto della sua superficiale piacevolezza. E’ interessante notare – e indicativo di fenomeni odierni che interessano il piano – che si tratta di un trio piano/basso/batteria in cui però paradossalmente a trovarsi in un ruolo subordinato è proprio il pianoforte, al quale, con una semplificazione della sua presenza e una restrizione drastica della sua autonomia, è affidata principalmente la delineazione piuttosto essenziale, senza sviluppo, di melodie, di temi, spesso con reiterazioni insistite: è come se il piano fosse chiamato ad offrire elementi di semplice gratificazione melodica, che sono allo stesso tempo degli spunti su cui può erigersi il virtuosismo di basso e batteria, quest’ultima intenta a produrre una eccitazione ritmica continua. La formula funziona, e Cohen ha molti fan, venuti numerosi non solo da Vicenza.

DOPO DUE ANNI tornata a pieno regime e alla sua collocazione in maggio, Vicenza Jazz è quest’anno intitolata a Charles Mingus, di cui in aprile si sono festeggiati i cento anni dalla nascita. Ottima l’idea della direzione artistica del festival di invitare a confrontarsi con l’universo di Mingus il sassofonista David Murray e di suggerirgli di farlo assieme ad un musicista che rappresenta la sensibilità di una generazione più giovane, il sassofonista britannico Shabaka Hutchings, beniamino di un certo pubblico giovanile che lo conosce per gruppi di successo come Arcestors, The Comet Is Coming, Sons of Kemet. In realtà, alla Sala del Ridotto del Comunale, col suo ottimo quartetto – Aruan Ortiz al piano, Brad Jones al contrabbasso, Hamid Drake alla batteria – aumentato a quintetto, Murray si è limitato a proporre due cavalli di battaglia del grande contrabbassista, Pithecanthopus Erectus (la serata era intitolata Pithecanthropus Mingus) e, interpretato in maniera molto felice, Sue’s Changes. Per il resto ha proposto brani del suo repertorio ordinario, e Hutchings è stato diligentemente al suo posto, senza fargli concorrenza al tenore e suonando invece per lo più il clarinetto: da anni la musica di Murray non mostra grandi preoccupazioni di ricerca, e si regge fondamentalmente, oltre che sulla bravura dei partner, sul solismo di Murray, con la sua impagabile sintesi che al sax tenore coniuga richiami stilistici a classici come Ben Webster e avanguardia free. Più che Mingus insomma Murray ha fatto sé stesso, il che comunque non è poco.