Non sui green di un campo a diciotto buche, e men che meno con legni, ferri e pat. Bensì sotto il viadotto di Ventimiglia, costruito nel greto fiume Roya. È la sacca da golf che contiene la vita di Abu, un ragazzo sudanese di venti anni giunto nell’ultimo lembo di Liguria dopo un’odissea durata nove mesi. Differentemente dagli altri che si ammassano sotto questo tetto di cemento armato, lui, Abu, non si vuole liberare dal suo tesoro fatto di stracci e scarpe.

I suoi amici, quasi tutti sudanesi, come unico bagaglio hanno un foglietto di un’avenue parigina, numero venti: poi un numero di telefono e il nome di un’associazione. Altro non serve, perché per fare un viaggio così, che parte dalle bombe del Darfur e termina dopo seimila chilometri, è necessario muoversi «leggeri».

Visto da sotto le alte campate di cemento, il posto di blocco che la gendarmeria ha fatto pochi chilometri a nord appare bizzarro: tre furgoncini blindati e due camionette. A mezzogiorno fa così caldo che nemmeno le vipere che vivono tra queste montagne osano stare al sole: ci sono però i gendarmi, appena riparati da un tendone. Tu arrivi con l’auto, entri dentro una sorta di box da formula uno ricavato da un parcheggio, loro ti guardano sospettosi, e se hai la faccia di uno che a cui stanno simpatici i profughi del mondo ti fanno aprire il bagagliaio. Poi, appurato per l’ennesima volta che non sono quelli che hanno la faccia da amici dei migranti a portare i migranti in Francia, almeno non qui, dicono «aurevoir».

L’aspetto curioso di questa ciclopica lotta contro i mulini a vento, senza offesa per Don Chishotte e le sue nobili battaglie, è che l’immenso apparato di controllo transnazionale che tenta di bloccare questo esodo, semplicemente, non serve a nulla. A Ventimiglia è evidente come in nessun altro luogo. Secondo il parroco don Rito, che anima la parrocchia di Sant’Antonio che si trova di fronte al viadotto – accoglie le donne e i minorenni direttamente in chiesa – ogni settimana passano la frontiera almeno trecento ragazzi. Inutile fare i conti, meglio dare il totale: passano tutti.

Molti vengono acciuffati al di là del confine e riportati in Italia: tutti ci riprovano fino a quando non riescono, con qualunque mezzo, a giungere in un punto della Francia dove non possono più essere rispediti indietro. Il record di tentativi lo detiene Moussa: otto. Anche lui, alla fine ce l’ha fatta.
L’intero apparato di controllo e respingimento, per questi giovani uomini è ininfluente. Un ostacolo come tanti che fa parte del viaggio: «Noi – dice Ismael, studente universitario del Sudan, un ragazzo dai modi raffinati che vive su un cartone, ma non si priva della dignità di piegare i vestiti e riporli in un sacchetto – dobbiamo raggiungere la Francia: abbiamo attraversato il deserto, siamo stati frustati dai poliziotti libici, sui barconi ci hanno spianato le armi a una spanna dal volto se chiedevamo acqua: secondo te, ci può spaventare la polizia francese o italiana?».

E se mettono le navi da guerra nelle acque libiche? Intorno a Ismael, si sono radunati sette ragazzi. La risposta è un coro: «non cambia nulla, partiremo da un’altra parte».
E se vi sparano in mare? «Amico mio, noi scappiamo dalla guerra. Tu conosci la guerra?»
Non c’è condizione minacciosa che riesca a scalfire questi ragazzi del Sudan finiti in un punto del mondo che ignorano.

Ventimiglia è una cittadina graziosa: ha un centro storico color pastello strapiombante sul mare, una lunga spiaggia libera, un imponente via vai di turisti che provengono dalla Francia e non solo. I prezzi per soggiornarvi sono decisamente più convenienti delle località turistiche del savonese. Una parte minoritaria della cittadinanza – la maggioranza è semplicemente indifferente – mal tollera soprattutto i fenomeni di accattonaggio: ma quest’anno si è scoperto che dietro tale fenomeno non ci sono i profughi, i quali non hanno alcun interesse a mendicare. Bensì un’organizzazione che portava, da Torino, migranti trasformati in schiavi ad allungare la mano ai semafori. Ingolosita dalla generosità del battaglione di volontari provenienti da tutto il mondo.

Ventimiglia è amministrata da un giunta di centrosinistra, subentrata ad un commissario prefettizio nel 2014, dopo due anni di scioglimento per infiltrazioni mafiose.
Silvia Sciandra è la vicesindaca: «Viviamo questa condizione a mani nude, senza fondi, in preda alle passerelle che si susseguono: tutti coloro che cercano un titolo sui giornali vengono a Ventimiglia, urlano la loro indignazione, aizzano, e se ne vanno».

Il suo racconto mette in luce aspetti paradigmatici: «L’immigrazione è anche una risorsa preziosa per chi vuole speculare politicamente. A Ventimiglia abbiamo chiesto all’opposizione di sedersi a un tavolo per trovare una soluzione comune, per unire le forze: chiusura totale. L’importante è trarre beneficio immediato dalle difficoltà altrui».

La giunta di Ventimiglia è finita, alcuni mesi fa, nell’occhio del ciclone per una ordinanza che vietava la somministrazione dei pasti nel luoghi pubblici, poi ritirata per le proteste: «La cittadinanza viene aizzata contro i migranti, sempre via social, su piccole cose, ad esempio i rifiuti che abbandonano per strada. Evitare questi scontri a bassa intensità era il nostro obbiettivo: siamo stati travolti. Ma, in realtà, l’unica cosa che risolverebbe la situazione sarebbe la creazione di corridoi umanitari. Lo sanno tutti, ad ogni livello. Non si fa nulla, e si abbandonano questi esseri umani nelle mani dei trafficanti di uomini o allo sbaraglio».

Intorno alla stazione ferroviaria, dove due anni fa erano stipate oltre settecento persone, non c’è quasi più nessuno. Sugli scogli che videro sorgere una vergognosa tendopoli a due passi dal confine, oggi sfrecciano le cabriolet che corrono lungo l’Aurelia. L’ «invasione» è concentrata sotto il viadotto, in appena trecento metri. Poco più a nord c’è il campo della Croce Rossa, che i giovani sudanesi, e non solo, rifiutano, perché una volta registrati non potrebbero più raggiungere, e qui soggiornare, l’indirizzo scritto sul prezioso foglietto.

Ma perché, ad ogni costo, la Francia? Ismael e amici, dopo aver parlato di amici e parenti sparpagliati al di là del confine ammettono, a disagio, la ragione della scelta: «Amico mio: meno carta, meno fogli da compilare, meno burocrazia, meno attesa infinita – e soprattutto, ecco la stoccata – loro hanno il lavoro e lo Stato sociale. In Italia è bello, ma non c’è il lavoro, ed è tutto un casino».
Giunge la sera, Ismael e gli altri, raggiungono i loro appartamenti di cartone sotto il viadotto: poco distante inizia un via vai di furgoni con targa francese.

Dopo la preghiera, che si fa sul greto del torrente, in molti prendono la via del destino. Ultima fermata: Parìs.