«A un passo dal baratro ci siamo fermati». La dichiarazione sconsolata di un delegato molto preoccupato e quasi incredulo esprimere appieno, anche con la sua carica di passione e commozione personali, la situazione venutasi a creare nella giornata conclusiva del XVI Congresso dell’Arci appena terminato a Bologna.

Mentre i delegati riprendono le loro valigie, e i due candidati alla presidenza preferiscono non rilasciare alcuna dichiarazione, nei vari capannelli si discute ancora; molti si abbracciano e alcuni piangono scuotendo la testa, sconvolti dall’esito congressuale. La spaccatura verticale tra le due anime dell’associazione è stata evitata con una salomonica decisione dei delegati: tutto rinviato a un prossimo appuntamento, probabilmente a giugno; nel frattempo, dato che era in ballo l’elezione della nuova presidenza, reggenza del presidente uscente Paolo Beni e dei segretari regionali. In un crescendo di tensioni, già evidenti nei primi due giorni di congresso, e dopo una tarda mattinata di battaglie sulle regole statutarie e sulle modalità di voto, il «corpaccione», come lo chiamava Tom Benettollo, della più grande associazione di volontariato laica italiana, getta la spugna. L’Arci si dichiara sconfitta ai punti, accingendosi a un ripensamento profondo di se stessa.

La «diversità che è anche ricchezza» non ha trovato la sua sintesi in questo round congressuale forse perché, come nella leggenda ebraica del dibbuk, l’essere con due anime, in questo momento entrambe vorrebbero portare il corpo dalla loro parte. La saggezza del fermarsi è comunque prevalsa su uno scontro lacerante che avrebbe probabilmente configurato un assetto associativo che si sarebbe lasciato alle spalle l’Arci come l’abbiamo conosciuta in questi anni. Dietro il rinvio dunque i nodi da sciogliere restano intatti: politici e organizzativi; organizzativi perché politici. Ma chi sono le parti in campo? Come si configurano? Da una parte, molto sinteticamente, gli storici insediamenti della Toscana e della Emilia Romagna, nati presso le case del popolo con i loro servizi e le conseguenti forme di organizzazione dell’esistente, ma anche con sensibilità vicine ai partiti politici che in questi anni hanno governato quei territori.

Dall’altra, sempre molto schematicamente, le giovani leve cresciute nei movimenti dei Social Forum, da Genova a Porto Alegre, che oggi rivendicano non solo un cambio generazionale, ma un’Arci molto più schierata, assolutamente non neutrale rispetto alle grandi questioni che in queste sedi si discutono: un nuovo modello di sviluppo, la lotta al precariato, un’alternativa per l’Europa, e dunque di conseguenza con forme organizzative più flessibili e inclusive.

Ma non solo, un’Arci che non si limita ad affrontare i problemi emergenti sul piano politico ma diventa essa stessa risposta a questi problemi attraverso le vite organizzate degli associati. Non è propriamente uno scontro vecchi giovani però, dato che oramai la generazione Genova ha la sua età, quanto di contenuti e di organizzazione politica degli stessi.

La tensione tra queste due posizioni è decisamente evidente e non facile da ricomporre, specie in questo momento di crisi sia dell’organizzazione interna Arci, che comunque deve far i conti sia con ciò che avviene nella società, sia dei movimenti inerenti il quadro politico nazionale ed europeo. Ma allora lo scontro tra i due candidati alla presidenza è stato uno scontro di potere politico oltre che di visione organizzativa? «Certo» dice una delegata, ma aggiunge subito orgogliosa: «Per questo ci siamo presi il tempo di riflettere».