«Tolleranza zero con gli estremisti» proclamò ad alta voce il premier israeliano Netanyahu. «Abbiamo affrontato il fenomeno del terrorismo ebraico troppo debolmente» aggiunse il capo dello stato Rivlin. «Misure risolute per proteggere la popolazione locale» dalla violenza dei coloni israeliani, invocò con forza l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue Federica Mogherini. Il presidente palestinese Abu Mazen da parte sua assicurò «Presenteremo il caso alla Corte penale internazionale». Fece scalpore il rogo che nella notte tra il 30 e il 31 luglio carbonizzò Ali Dawabshah, 18 mesi, e che una settimana dopo avrebbe ucciso anche Saad Dawabshah, il padre del bimbo palestinese, rimasto gravemente ustionato. Dopo quella notte in cui alcuni individui lanciarono bottiglie incendiarie contro l’abitazione dei Dawabshah nel villaggio di Kafr Douma, il mondo apprese della violenza degli estremisti di destra e dei coloni israeliani in Cisgiordania che i palestinesi denunciano invano da anni. Lo stesso esercito e i giornali israeliani sin dal primo momento non ebbero dubbi sulla paternità dell’azione assassina. La firma lasciata sulle pareti annerite della casa non lasciava alternative: “Vendetta” e “Lunga vita al Messia”. Parole e slogan dei “redentori” della biblica terra di Israele, “Eretz Israel”, forse intenzionati a vendicare la demolizione ordinata un paio di giorni prima dalla Corte Suprema di un paio di edifici nella colonia ebraica di Bet El.

 

Un mese dopo, passati il clamore e le tensioni di quei giorni che fecero intravedere l’inizio di una nuova Intifada palestinese, pochi ricordano che i membri superstiti della famiglia Dawabsha, Ahmad, 4 anni, e Riham, 29, la mamma di Ali, sono ancora in ospedale. Ahmad dovrebbe farcela mentre Riham lotta ancora tra la vita e la morte. Da metà agosto respira solo grazie all’aiuto dei macchinari dell’ospedale Cheba, il suo corpo è ustionato per un 80% e alcuni organi interni, a cominciare dai polmoni, funzionano solo in parte a causa delle bruciature e del fumo intenso che ha inalato durante l’incendio. «Preghiamo e speriamo per Ahmad e Riham. Non possiamo fare altro», dice sconsolato Hussein Dawabshah, il nonno di Ali, a chi si reca a fargli visita a Kafr Douma. Lui e tutti gli altri membri della famiglia dicono di non avere alcun fiducia nelle indagini israeliane. «All’inizio i militari (israeliani) si mostravano comprensivi e gentili, poi sono spariti e gli assassini di mio nipote e mio cugino restano liberi», dice Basem, uno zio di Ali.

 

I palestinesi sono convinti che nessuno stia realmente cercando i responsabili della morte di Ali e Saad Dawabshah. In queste quattro settimane il clamore mondiale suscitato dal rogo di Kfar Douma ha prodotto soltanto un ordine di “detenzione amministrativa” (carcere senza processo) per sei mesi nei confronti di tre militanti della destra e provvedimenti restrittivi nei confronti di una decina di coloni ed estremisti. Queste persone comunque non sono accusate di essere coinvolte nell’uccissione di Ali e di suo padre. L’impressione di tanti è che il servizio di sicurezza Shin Bet sia frenato da pressioni politiche. Con un governo che li sostiene apertamente e una Knesset dove hanno decine di parlamentari amici, e qualche volta anche vicini di casa, i coloni israeliani più estremisti si sentono intoccabili.

 

Non sono intoccabili invece i palestinesi sotto occupazione militare. Le unità scelte dell’esercito israeliano entrano ed escono come vogliono dalle città autonome della Cisgiordania che pure ricadono sotto la piena autorità dell’Anp di Abu Mazen. Tuttavia l’altra notte a Jenin, dove erano entrate per catturare un esponente del Jihad, Bassem al Saadi, hanno incontrato una forte resistenza, anche armata, dei palestinesi come non accadeva da anni. Si è scatenata una vera e propria battaglia con l’utilizzo da parte israeliana di mezzi blindati, elicotteri e ruspe. Inizialmente si era parlato di alcuni morti ma lo scontro ha provocato solo feriti, tra cui un soldato forse colpito da “fuoco amico”. Distrutta dagli israeliani la casa della famiglia Abu al Hija, vicina ad Hamas. Le forze di sicurezza dell’Anp sono rimaste chiuse nelle caserme senza intervenire.