Sarà la quiete prima della tempesta, ma la mini-navigazione a bordo della Anywave, la prima barca a vela ecosostenibile d’Italia, si arena in una bonaccia immobile appena fuori dall’insenatura di Porto Piccolo, luogo tuttora prediletto dalla ex nobiltà asburgica dove l’Adriatico incoccia in pittoresche falesie. Doveva piovere e al largo si addensano nuvoloni, ma per il momento il vento soffia a 0,3 nodi e non c’è neppure il conforto della brezza marina. Alberto Leghissa, skipper di lungo corso, sostiene che in mare aperto, a un paio d’ore di navigazione, si potrebbe veleggiare. Qui però non si muove nulla, al punto che non si avverte neppure il dondolio delle onde.

Approfitto della calma piatta per scendere in cambusa e osservare da vicino cosa vuol dire che l’imbarcazione sulla quale mi trovo è «plastic free», libera dalla plastica. A guidarmi nel mini-tour di pochi metri quadri è Gino Becevello, il primo velista in Italia a essere nominato «responsabile ecologico» di bordo. Vuol dire che è suo il compito di far sì che le regole del «decalogo» affisso all’altezza del lavandino siano rispettate. «Naviga quanto più possibile a vela, non gettare nulla di non organico in mare aperto, utilizza prodotti per la pulizia biodegradabili, non usare stoviglie, piatti e bicchieri monouso, ripesca le plastiche galleggianti che trovi in mare», si legge sulla tavola dei dieci comandamenti del marinaio ecologicamente corretto.

POTREBBERO SEMBRARE ACCORGIMENTI di poco conto, ma su una barca di pochi metri, dove gli spazi sono ridotti all’osso, pure una misura minima come la sostituzione delle casse d’acqua con due taniche da trentacinque litri ognuna collegate a una fontana dalla quale riempire ognuno la propria borraccia fa la differenza, evitando che, ogni sera, il pavimento diventi un tappeto di bottiglie di plastica schiacciate. «Ci chiedevamo da tempo perché non si potesse replicare anche a bordo ciò che facciamo tutti noi a casa, adottando piccoli ma utili accorgimenti, a partire dalla raccolta differenziata dei rifiuti. Certo, gli spazi sono ristretti, quindi non è semplice, ma si può fare, basta la volontà e un pizzico di ingegno nell’organizzazione», spiega Leghissa. I rifiuti raccolti durante la navigazione vengono raccolti e separati in appositi contenitori, che sono svuotati quando si arriva in porto. Quando va a fare la spesa, Becevello acquista cibo senza imballaggi e cerca di recuperare e riutilizzare tutto. Pure le vele non più utilizzabili vengono riciclate in borse sportive e altri accessori che sono messi in vendita e vanno a finanziare la Upwind, un’associazione di Trento che si occupa di donne vittime di maltrattamenti.

È COSÌ CHE QUESTO SCAFO IN CARBONIO da nove tonnellate e mezza datato 2001 e firmato dal prestigioso studio d’architettura navale German Frers, lungo diciannove metri e con un albero alto ventisette metri, si avvia a diventare un pioniere della sostenibilità ambientale. L’hanno acquistata in sei, tutti appassionati di vela come si può essere solo a Trieste dove questo sport è popolare e non un passatempo d’élite, da un curatore fallimentare per appena 45 mila euro. Ne hanno spesi altri 150 mila per ristrutturarla e utilizzarla per fini sportivi ed eco-sociali. Il suo esempio sta già facendo breccia in un mondo che, a dispetto delle apparenze, fino a oggi non aveva mostrato grandi attenzioni per il mare nel quale naviga. Ne è testimonianza il fatto che la Società Velica Barcola e Grignano, organizzatrice della storica regata triestina Barcolana, ha deciso di rendere obbligatoria la figura del responsabile ecologico a bordo di tutte le imbarcazioni iscritte alla prossima Coppa d’Autunno, a ottobre.

Ci saranno pure loro, con l’equipaggio di sedici persone in formazione completa, di ritorno da un giro per le coste italiane cominciato in questi giorni, con tappa in diversi porti e la partecipazione ad alcune regate, da Capri a Livorno, fino a Genova. Durante la circumnavigazione dell’Italia, promuoveranno in porti e darsene la posa di alcuni cestini per la raccolta dei rifiuti in mare, denominati «seabin». Il primo lo hanno sistemato qui a Porto Piccolo, nel «punto di accumulo» dove le correnti portano ciò che il mare raccoglie. Prima di salire a bordo mi hanno portato a vederlo. È sistemato in un angolo del porto, vicino alla banchina. Raccoglie oltre cinquecento chilogrammi di rifiuti galleggianti all’anno, filtra 25 mila litri di acqua marina all’ora e cattura le microplastiche da cinque a due millimetri di diametro e le microfibre. Unica accortezza: ogni due giorni va svuotato e pulito.

I 34 «SEABIN» FANNO PARTE DI UN PROGETTO della Coop che si chiama «Un mare di idee per le nostre acque» e si aggiungeranno ad altri quattordici posizionati l’anno scorso in fiumi e laghi, persino in bacini artificiali come la Darsena di Milano dove la movida serale non è sempre attenta al suo impatto ambientale. Dentro ci hanno trovato di tutto: lattine, mozziconi di sigarette, assorbenti, cotton fioc, pezzi di polistirolo, bottiglie, imballaggi alimentari, bicchieri, tappi, sacchetti, cannucce e cucchiaini. «Possono avere un ruolo importante non solo per pulire i nostri mari, ma soprattutto per sensibilizzare le persone e spingerle a essere più attente e consapevoli», spiega il direttore scientifico di Lifegate Simone Molteni, a cui si deve il progetto del cestino mangia-rifiuti. A suo parere, è necessario però agire soprattutto a monte, su chi ogni giorno immette sul mercato tonnellate di plastica sotto forma di bottiglie, contenitori e imballaggi, per arginare un problema che ha assunto proporzioni gigantesche. Ogni giorno nel Mediterraneo finiscono 731 tonnellate di plastiche, novanta delle quali nei mari italiani, delle quali quattro trasportate dai fiumi. I frammenti di plastica vengono scambiati per cibo dai pesci e finiscono nella catena alimentare: stando ai dati dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra), il diciotto per cento del tonno e del pescespada pescati nel Mediterraneo contengono microplastiche.

«Stiamo cercando di ridurre il più possibile gli imballaggi nei nostri supermercati, nei prodotti con il nostro marchio e provando a coinvolgere le aziende che ci forniscono i prodotti in progetti come questo», dice l’amministratrice delegata di Coop Italia Maura Latini. «Se si muove la grande distribuzione organizzata, l’unica realtà capace di imporre le sue regole al mercato, si può sperare davvero che i fornitori, per non perdere le commesse, riducano o azzerino del tutto gli imballaggi di plastica», sottolinea Molteni.

NEL FRATTEMPO, L’ANNO SCORSO I «SEABIN» hanno recuperato otto tonnellate di rifiuti. Per quest’anno si punta a raccogliere ventitré tonnellate, l’equivalente di un milione e mezzo di bottiglie in plastica. Se si mettessero in fila, si estenderebbero per trecento chilometri. In mare, formerebbero un’enorme isola di plastica galleggiante che, osservata dalla bonaccia della Anywave, non inviterebbe a proseguire il viaggio.