È quasi una «sopravvissuta» la Cappella Brancacci (che si trova all’interno della chiesa di santa Maria del Carmine a Firenze), avendo resistito a diversi eventi nefasti nel corso della sua lunga esistenza. Primo fra tutti, fu l’allontanamento dei suoi committenti, la famiglia dei Brancacci quando si schierò contro i Medici.
Il mercante di sete e politico fiorentino Felice la commissionò al suo ritorno dall’Egitto nel 1424: doveva illustrare le storie di san Pietro, protettore della sua dinastia e richiese il lavoro dei due big dell’epoca, Masolino e Masaccio. Quest’ultimo però morì in una permanenza a Roma nel 1428 e l’opera rimasta incompiuta fu terminata da Filippino Lippi, più di cinquant’anni dopo.

NEL FRATTEMPO, su quel piccolo scrigno dell’Umanesimo si era abbattuta la damnatio memoriae, eppure, nonostante i rimaneggiamenti e il nuovo assetto con la trasformazione della cappella in santa Maria del Popolo, luogo di devozione intensa per l’icona della Madonna lì custodita, resistette. Nel 1680 arrivò il marchese Ferroni, la voleva «ammodernare», acquisendola e buttandola giù. A salvarla fu in quel caso la granduchessa Vittoria della Rovere, ma il rischio più grande la cappella Brancacci – già «mutilata» delle volte a crociera dipinte da Masolino, cancellate nel 1746-48 – lo corse con l’incendio che divampò nel 1771. Le fiamme non divorarono gli affreschi, ma annerirono e sbruciacchiarono i colori (le tracce sono ancora visibili), provocando dei pericolosi distacchi di intonaco. E qui comincia la «seconda storia» della Cappella Brancacci, quella degli interventi di restauro.
Il primo – settecentesco – si attuò in emergenza «post fuoco», con iniezioni di gesso per far riaderire le parti distaccate. L’Ottocento sostanzialmente si accontentò di una manutenzione (così come la prima parte del XX secolo), mentre gli anni Ottanta del Novecento furono quelli della totale rinascita: attraverso un lungo intervento che durò fino all’89 riaffiorarono i veri colori e l’insieme – anche strutturale – venne messo in sicurezza, con le riadesioni dell’intonaco dove considerato necessario.
E se quel momento del restauro segnò un capitolo esemplare nell’approccio concettuale e tecnico – oltretutto cancellò il bigotto fogliame dipinto a copertura delle parti intime di Adamo ed Eva, restituendo l’originale – come mai oggi, a distanza di poco più di trent’anni, si torna a parlare di un intervento di conservazione?
Come spiega Alberto Felici, restauratore della Soprintendenza (che ha lavorato su Giotto, Giulio Romano, il Filippino Lippi di santa Maria Novella), nel novembre del 2020 un monitoraggio aveva evidenziato alcune criticità e potenzialità di deterioramento. La parete che ospita gli affreschi di Masolino presenta, infatti, localizzati distacchi di intonaco e si è ingobbita in alcuni punti. «Negli anni 80, seguendo il criterio della compatibilità si mise a punto una malta composta di calce e sabbia con l’aggiunta di una fonte di anidride carbonica che le consentisse di fare presa. È probabile che durante il periodo di presa abbastanza lungo, ci sia stata una separazione della matrice fra aggregante e aggregato e che ciò abbia determinato poi una sedimentazione nella parte bassa, provocando quei distacchi».
Su quei ponteggi il pubblico può salire, prenotando l’ingresso, per quattro giorni alla settimana (con facilitazioni per i disabili e avvalendosi in aggiunta delle visite guidate introduttive convento carmelitano e affeschi dei mediatori culturali di MUS.E) guardando da vicinissimo le scene della vita di san Pietro: una occasione unica che rappresenta anche un «risarcimento simbolico» dopo il lockdown e la chiusura dei musei.
L’impresa attuale nasce da un accordo fra Comune di Firenze, Soprintendenza, Cnr-Ispc, Opificio delle pietre dure e la fondazione statunitense Friends of Florence, in compartecipazione con Jay Pritzer Foundation, che sostengono e finanziano il progetto.