Quando debuttò sulla Hbo sei anni fa, preceduto da una campagna affissioni che promuoveva nelle città americane un’enigmatica bevanda simil-sangue,True Blood (Fox sul canale 112 di Sky sta trasmettendo in Italia ogni lunedì alle 22.45 la settima e ultima stagione) lo fece con un irresistibile miscela di dissacratoriazione e soap-operatico melò e un’inedita lettura di un genere apparentemente inesauribile e ormai sovraesposto, (quasi contemporaneamente usciva all’epoca il primo film della serie Twilight).

A fronte del romanticismo adolescenziale dei film tratti dai romanzi di Stephenie Meyer, inTrue Blood, il creatore Alan Ball, riesumava i vampiri in chiave sia pulp che «pop» in un Southern Gothic hipsterizzato, condito abbondantemente di sesso e patemi d’animo, in una location fortemente regionale com’è la Louisiana romanzata di Bon Temps, la cittadina di Sookie, Jason, Eric, Bill, Sam e gli altri personaggi «normali» e devianti che popolano l’improbabile paese.
Ball è originario della Georgia, di casa quindi nel Sud, inteso come location geografica, mentale e letteraria, la regione così incastrata fra la narrativa romanzata del nobile antebellum e il peccato originale dello schiavismo, dove galateo e ospitalità si mescolano paradossalmente con un cuore tenebroso e violento: la ritrosia dell’Appalachia, la scontrosa ottusità redneck. In quel torbido afoso, grondante sesso e religione, Ball rimuginava gli argomenti che in fondo ha sempre trattato, dichiarando da subito: «True Blood è fantasia, è fantascienza che usa il fantastico per parlare della condizione umana – o di quella vampiresca se è per questo.»

Lui d’altronde, come sceneggiatore di American Beauty aveva vinto una manciata di Oscar con un ritratto beffardo e minimalista di una America suburbana, popolata di bigotti in preda a frustrazioni sessuali, tragicomicamente alla deriva in un mare di banalità e ipocrisie. Il film era un American Gothic amaro situato nelle villette a schiera delle blande periferie residenziali.
Nelle trame di True Blood piene di fate, menadi e serial killer, poliziotti, tossici e sette religiose mina una vena più sensazionale ma dietro alla fiaba c’è pur sempre la realtà come confermava l’autore. «In America viviamo con mille paure, per molti versi è la cultura della paura e forse per questo cerchiamo modi per sfogare quelle paure in modo sicuro – per esempio in una serie sui vampiri. Creature dalla ben nota dimensione metaforica associate alla repressione sessuale sin dall’epoca vittoriana. True Blood (…) ha forse più a che vedere con i pregiudizi e l’esclusione dei diversi. E storicamente in questo paese non mancano gli esempi delle tensioni create quando una minoranza tenta di integrarsi nella società – genera, tensione, violenza, sommosse ma in definitiva rappresenta un momento di progresso collettivo.» A questo riguardo non lasciava alcun dubbio la sigla che rimarrà nella storia della tv.

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Commissionata (come già quella di Six Feet Under) alla Digital Kitchen di Seattle, la sequenza è una specie di retroingegneria una ballata country sul peccato e la salvazione, il razzismo e i linciaggi, le preghiere, i battesimi, le lacrime di coccodrillo, insomma, di un paese integralista dove peccato e redenzione si mischiano come le risse da bar e i sermoni dei predicatori la mattina dopo. Nei fotogrammi che Ball aveva volute per introdurci al mondo di True Blood ci sono sbronze redneck e tumulti razziali, preghiere e odio: «God Hates Fangs!» recita una scritta vista di striscio sull’insegna di un bar, parafrasando lo slogan omofobo preferito dai teocon (anche loro stirpe sudista).

Il «gothic» di True Blood è quindi decisamente southern, una telenovela vamp/camp godibile per il melodramma della trama quanto per gli squarci di sud passionale, acquitrinoso e grondante religione come una canzone di Johnny Cash. Certo, True Blood, data la materia, ha un debito con le storie di vampiri romantici /erotici di Anne Rice. Ma alla New Orleans di quest’ultima, decadente e acculturata, Ball preferisce il sud rurale e retrogrado della Louisiana del nord, quella dei piccoli paesi del Buio Oltre la Siepe (il romanzo di Harper Lee, dichiara, è il suo libro preferito) e ..E L’uomo Creò Satana. Bon Temps è il sud dei pick-up con l’adesivo Jesus e la selvaggina legata sul cofano; pettegolo e arcigno – un po’ Faulkner e molto Tennessee Williams (ma nello stile di Ball c’è molto della satira anti cliché di John Waters).

In definitiva l’operazione di Ball è sui pregiudizi e la forza destabilizzante della trasgressione (in primo luogo sessuale), il familiare terreno già perlustrato in Six Feet Under con cui la serie ha in comune l’umorismo nero e necrofilo e i temi di mortalità e rimozione e della disfunzione famigliare, nonché l’impeto erotico come compulsione ma anche forza vitale in un modo di morte incombente. «Quando avevo 13 anni», spiega Ball, «siamo rimasti coinvolti in un incidente d’auto e mia sorella è morta davanti a me. Credo che da allora la morte sia sempre rimasta una forte presenza nella mia vita e nel mio lavoro».

Come i libri della Rice, la serie di Ball aveva da subito conquistato un forte seguito LGBT – con personaggi apertamente gay (in particolare lo squisito cuoco Lafayette creato da Nelsan Ellis). E l’evidente allusione al dilemma di integrazione nel momento della lotta per il matrimonio – senza tralasciare ovviamente la dovizia di petti nudi e jeans attillati, di entrambi i sessi. Non a caso Ball si vantava di aver aiutato più coppie in crisi che un esercito di consulenti matrimoniali.

Ora che con l’ultima manciata di episodi su Bon Temps sta per calare il sipario, Ball già da un paio di anni si è tirato indietro per occuparsi d’altro (l’ultimo progetto, Banshee, è ancora un paradosso Americano: storia di criminali Amish) e la sua mancanza, sinceramente si sente. Lo show ha un nuovo showrunner e molti degli attori hanno fiorenti o incipienti carriere in cinema e sul piccolo schermo.
A True Blood è rimasto il format, ma la fiaba è un po’ più gratuita; forse è un buon momento per sigillare le bare e passare oltre – fino ai prossimi vampiri.