In un programma che sin dalle prime giornate si conferma effervescente (anche nei dettagli: logo, sigla, striscia di video musicali esteuropei in testa alle serate), il Trieste Film Festival conferma nel nucleo territoriale balcanico (ex-Jugoslavia e Romania) il suo perno di maggior forza. Si percepisce ormai nettamente che la grande energia del cinema jugoslavo (la quale andava ben oltre la consistenza politica del progetto jugoslavo, e uno dei massimi errori di Tito fu di non capire i veri tesori che il «suo» cinema gli offriva) si è ormai definitivamente smarrita.

Le due cinematografie che ne erano i perni, la slovena e soprattutto la serba (che appunto riuscivano a essere insieme slovena e jugoslava, serba e jugoslava), hanno perso questa bussola. Gli ultimi maestri scomparsi (Klopcic in Slovenia, Pavlovic in Serbia) si sono portati nella tomba tutta un’epoca del cinema. In Serbia compare qualche buon film in mezzo al profondo allinearsi dell’immagine al mainstream che si produce ovunque nel mondo; ma quei pochi buoni film non trascinano tutto il cinema nazionale come avveniva in altra epoca.
In Slovenia si potè credere che Jan Cvitkovic stesse diventando un regista che reinventa degnamente quel passato; ma proprio da lui ci giunge oggi una grande delusione.

Non si tratta dell’«indifferenza» di Cvitkovic verso il cinema, perché un grande cinema (Rossellini lo insegna massimamente) può nascere proprio dall’idea che in esso conti piuttosto quanto vi irrompe. Cvitkovic aveva sfiorato due volte, con il Kruh in mleko iniziale e con il suo terzo, felicemente incerto Archeo, un avvicinamento a una ragione forte del fare cinema. Il suo secondo film Odgrobadogroba prolungava (e a tratti approfondiva) nella presenza di Sonja Savic la forza del primo film, ma tutta la parte commedia già preludeva (come i suoi cortometraggi e realizzazioni televisive) all’odierno quarto film, Siska Deluxe, qua e là intelligente e divertente commedia di una coralità slovena, con rimandi alle vicende ex-jugoslave, ma ahimè senza un’idea di cinema che non sia il «saper girare» (la cosa che meno conta nel fare cinema), l’apparire gradevole.

Se Slovenia e Serbia (e tantopiù Bosnia, Macedonia, Montenegro) sono ormai territori di cinema in cui si salvano solo le eccezioni (ma in Italia non è diverso), la Croazia, che ebbe sempre un cinema interessante ma che appariva secondario rispetto al trascinamento serbo del cinema jugoslavo, è oggi uno dei più interessanti territori cinematografici europei (con Portogallo, Finlandia e più discontinuamente la Romania).

In Croazia il cinema pensa cinema. Le opere di Devic e Juric lo realizzano compiutamente, ma non è un caso che i due film croati presenti a Trieste siano momenti paralleli rispetto ai loro Crnci e Kosac. Anche prima di leggerne i titoli di coda, in cui Juric è ringraziato, Setac di Filip Mojzes lo evoca già con la variazione sonora del titolo. Si tratta «solo» di un cortometraggio, ed è già miracoloso che un corto diventi uno degli eventi del festival. Ma lo è: la figura dello straniero, della paura «civile» nella famiglia croata, trova nel film un’inquadratura sublime nel volo di un uccellino nel paesaggio, apparizione forse casuale, forse persino trucco sull’immagine, ma che nel film diventa emblema di un’apertura d’orizzonti oltre la civiltà umana, degna di L’aquarium et la nation di Straub. Il lungometraggio croato che ha aperto il festival, Zvizdan di Dalibor Matanic, sarà meritoriamente distribuito in sala dalla Tucker col titolo Sole alto. Due attori stupendi, la serba Tihana Lazovic e il croato Goran Markovic (omonimo del regista serbo), attraversano i tre episodi di tre storie d’amore in epoche diverse, con la notevole fotografia dello sloveno Marko Brdar.

Ciò che in un film di mainstream di qualsiasi paese si sarebbe sottolineato in furbizia, diventa nel vitale cinema croato un film davvero inquieto. Non un capolavoro come i film di Juric e Devic, ma un film che come essi vive con forza l’incertezza del rapporto con l’anteguerra. E Matanic e Juric sono in questo momento uniti anche dalle regie di alcune serie televisive, che vorremo confrontare al più presto.
Il cinema romeno sta parimenti rinforzando oggi il rapporto col suo grande passato cinematografico. Per cui anche un film dal girare vezzoso da post-Dogma come Lumea e a mea di Nicolae Constantin Tanase fa prevalere quel sentimento di solitudine dei personaggi che come nei capolavori di Daneliuc e Tatos è il fondo della romenità. La realizza invece con vero talento Box di Florin Serban, in cui la storia d’amore s’incarna in due attori meravigliosi, la transilvanica, matura Hilda Péter e l’adolescente Rafael Florea. Un film di profondo, vero sentimento dei corpi che si ribellano alla sconfitta del sociale. Il cinema esteuropeo ha infatti capito Giuseppe De Santis meglio di quello italiano. Ma sul cinema romeno (come su quello polacco e altro) visto qui torneremo nella prossima corrispondenza dal festival.