Reintegro immediato di Zeno D’Agostino alla presidenza dell’Autorità portuale, questo sta chiedendo Trieste. La città c’è, il Presidente del suo porto non si tocca perché quello che è successo a Trieste in questi ultimi anni non può finire così, con la defenestrazione di un manager per una norma mal scritta o mal interpretata. Non Zeno D’Agostino, non questo porto, non questa città.

«SI È SCELTO IL LAVORO come priorità» aveva scritto Sergio Bologna nel suo ultimo libro Ritorno a Trieste. «Questo semplice gesto ha avuto l’effetto di una frustata sulla competitività del porto perché, non dimentichiamo, Trieste era la situazione più malmessa e più problematica dal punto di vista del lavoro: cooperative fallite, lavoratori a spasso e una serie infinita di contenziosi. Era il porto dove il far west della portualità italiana era ancora più selvaggio, non solo tollerato ma giustificato con l’argomento che il basso costo del lavoro di Koper/Capodistria poteva essere bilanciato con un costo del lavoro italiano ancora più basso grazie alla precarietà assoluta e totale, al caporalato e al lavoro nero. Qui si è dimostrato che la strategia competitiva giusta doveva seguire una strada esattamente opposta». Risultato: la rinascita di un porto lasciato languire per decenni e, oggi, primo porto d’Italia per merci movimentate.

LA CONSAPEVOLEZZA DI QUESTA svolta, della sua importanza, è diventata patrimonio della città e l’ha portata a schierarsi, cosa mai successa a memoria d’uomo. Alla notizia che Zeno D’Agostino non poteva più essere il Presidente, i lavoratori del porto hanno dichiarato lo sciopero, occupato le banchine e, dopo due giorni di assemblea permanente, hanno chiamato la città a unirsi alla loro lotta. Le adesioni sono arrivate subito: partiti, sindacati, ma anche chi mai aveva espresso una posizione «politica», dai tifosi della squadra di calcio alla comunità di fedeli del Tempio mariano. Manca solo Forza Italia: i malvisti rapporti con la Cina e la voglia di privatizzazione, devono tenere la posizione, seppure con lo sgomento per quanto avvenuto e l’auspicio che la gestione del porto non subisca interruzioni.

MA LA COSA NUOVA È CHE Trieste ha smesso di essere una città silenziosa, indifferente, sempre pronta a obbedire all’ultimo padrone di turno, con mille rivalità e rancori sottotraccia a impedirle di sentirsi comunità.
Trieste non ha una lunga storia alle spalle: era un borgo di pescatori diventato a metà del ‘700, con lo statuto di porto franco di Carlo VI d’Asburgo, un immenso emporio, un grande porto, una città. La storia poi è passata e ripassata su questa terra con una tale violenza da lasciarla tramortita. Il porto della mitteleuropa si è scontrato con una guerra mondiale che ha tranciato il suo retroterra naturale e le ha lasciato in dote un XX secolo di metamorfosi etniche e di tragedie: via i tedeschi e gli ungheresi e chiunque non rispondesse ai canoni della «città redenta», la persecuzione dell’identità slava, il fascismo, l’occupazione nazista, la lotta partigiana e poi quella sorta di autodistruzione della sinistra passata attraverso lo scontro tra filo-italiani e filo-jugoslavi e poi tra stalinisti e titoisti, mentre questo angolo estremo dello stivale diventava il fronte meridionale della cortina di ferro.

Trieste territorio libero e porto franco, anche per il Trattato di Pace del ’47, e anglo-americana fino al 1954 quando il Memorandum di Londra l’aveva posta sotto amministrazione italiana. Amministrazione in forma fiduciaria, non appartenenza allo Stato italiano ma Trieste risulta subito italiana a tutti gli effetti perché… cosa fatta capo ha. Il 1954 è anche l’anno dell’ennesimo stravolgimento demografico: continuano ad arrivare profughi dall’Istria e dalla Dalmazia mentre decine di migliaia di triestini prendono la nave e se ne vanno. «La mamma ritorna e i figli partono» dice lo striscione steso davanti alla Stazione Marittima: una buona parte di un’intera generazione, quella dei venti-trentenni, lascia Trieste per sempre. In quarant’anni, dopo aver visto sventolare sette diverse bandiere, la città ha cambiato pelle, chi la abita non ha memoria oppure ne ha troppa.

ANCHE IL TESSUTO ECONOMICO e produttivo si sgretola, quello sociale è già a pezzi. L’ultima volta che Trieste è scesa in piazza è stato nel 1966 davanti alla ventilata chiusura dei suoi centenari cantieri navali: è stata insurrezione vera e propria con centinaia di feriti e di arresti ma Trieste è rimasta senza i suoi cantieri. Diventa una città che vive di assistenzialismo e di un apparato pubblico elefantiaco ma la sua collocazione geopolitica la mantiene al centro di attenzioni mondiali: intrisa di servizi segreti, di massoneria, di una destra ben finanziata assieme alle organizzazioni paramilitari anticomuniste (l’andreottiano Ufficio per gli affari di Confine!). Parte da qui tanta strategia della tensione e sono nascoste in Carso le riserve di bombe e plastico di Gladio. Rappresenta il fronte meridionale della cortina di ferro, non può scappare.

TANTO CARA ALL’ITALIA, Trieste in realtà è perfettamente isolata da tutto anche fisicamente. Un’autostrada troppo stretta, una linea ferroviaria striminzita che arriva qui a bassa velocità e non prosegue perché i confini questo sono: mannaie che tagliano lingue, culture, sentimenti, ma anche collegamenti fisici. Da qualche anno, la riscoperta della città in chiave turistica vede anche parecchi italiani ammirare stupiti i suoi palazzi tra lo splendore del Carso e il mare, ma non si vive di alberghi e ristoranti, di lavoro precario, di arraffo finché ce n’è. La politica locale è immobile, divisa tra chi guarda indietro tentando di mantenere consensi anche a costo di riscrivere la storia e chi si accontenta di un piccolo cabotaggio di scarsa prospettiva. Tutti continuano a dimenticare comunque, e dura da cento anni, che Trieste è porto franco.

POI ARRIVA D’AGOSTINO e qualcosa comincia a cambiare. Una fortunata congiuntura triangola i primi passi concreti: Francesco Russo, oggi vice presidente piddino del Consiglio regionale ma cinque anni fa senatore, ottiene la sdemanializzazione della vecchia area portuale dismessa e Graziano Delrio, allora ministro, firma il decreto attuativo per il punto franco. La fenice è risorta: le gru si muovono anche di notte, i treni ripercorrono sempre più numerosi i vecchi binari austriaci verso la Mitteleuropa.

«COLORO CHE HANNO MESSO in moto la macchina per allontanare D’Agostino da Trieste, forse oggi si accorgono di avere fatto i conti sbagliati perché l’indignazione che percorre la città può avere sbocchi politici imprevedibili. Non tanto nel colore delle bandiere ma nella mentalità dei triestini, facendoli uscire dalle loro ataviche ristrettezze mentali e avviandoli verso un percorso di prospettive finalmente degne di una città che conta sullo scacchiere internazionale, indipendentemente dalla Via della Seta» dice Sergio Bologna, sempre attento a quello che succede nella sua città.

TRIESTE È TORNATA AL MARE, finalmente, e finalmente è rinata la speranza di un futuro: questo non può finire. Allora tutti in piazza oggi, anche quelli senza sponde e senza credi, ma tutti assieme perché la città ha trovato, quasi miracolosamente, la voglia di combattere per se stessa.