Il lungo addio si è compiuto. La Fiat si fonde con Chrysler e se ne va da Torino e dall’Italia. Ieri, al Lingotto, si è svolta l’ultima assemblea degli azionisti all’interno dei vecchi confini, 115 anni e 21 giorni dopo la prima riunione dei soci. Approvata a maggioranza (80%) la delicata operazione di fusione e così la nascita di Fca – Fiat Chrysler Automobile – dall’integrazione tra l’azienda della città della Mole e quella di Detroit. La sede legale sarà in Olanda, il domicilio fiscale nel Regno Unito, a Londra, dove si svolgeranno le riunioni del nuovo cda, senza più Luca Cordero di Montezemolo. Il titolo sarà quotato a ottobre a Wall Street (l’obiettivo agognato), ma anche sul mercato telematico di Milano.

Nonostante la proprietà assicuri che non si tratta di una fuga («Non andiamo all’estero, continuiamo a fare quello che stiamo facendo, semplicemente si è ampliato di molto il nostro perimetro di attività» ha precisato il presidente John Elkann), l’ad Sergio Marchionne ha chiaramente parlato di «un nuovo storico capitolo», che, viste anche le condizioni più favorevoli del mercato a stelle e strisce (le vendite sono in netto aumento), parlerà rigorosamente inglese. Benvenuti, allora, nel «mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano, le fanno accadere, si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta» come recita la trionfale chiosa dell’intervento di Marchionne.

Tutto bene? Non si direbbe, se la si guarda dalla parte dei lavoratori. Gli stabilimenti italiani attendono di sapere il proprio futuro e nelle province remote dell’impero, a Kragujevac in Serbia, gli operai, che producono la 500L, sono in stato di agitazione per le condizioni salariali ritenute «inaccettabili». Ieri, il premier Vucic ha detto, a dispetto di quanto promesso in campagna elettorale, di non poter rendere noti gli estremi del costoso accordo tra Belgrado e Fiat, perché segreto industriale. Una censura che non è piaciuta al parlamento serbo. Sull’occupazione in Italia, Marchionne si è limitato a dire: «Rispetteremo l’impegno per il rientro di tutti i dipendenti. Fateci lavorare in maniera molto silenziosa, le cose le faremo».

Anche la fusione con Chrysler è un’operazione rischiosa e non conclusa, i troppi recessi da parte degli azionisti, riuniti in assemblea, potrebbero farla ancora saltare; il verdetto a ottobre. Elkann infonde fiducia: «Il fatto che l’8% degli azionisti abbia votato contro la fusione non implica che tutta questa percentuale si traduca in recesso». A Marchionne il compito di delineare il futuro: «Il nostro obiettivo è di fare, in 5 anni, di Fiat Chrysler un’azienda con ricavi superiori ai 130 miliardi di euro, un ebit di circa 9 miliardi, che è tre volte quello dell’anno scorso, e un utile netto di circa 5 miliardi di euro, più di cinque volte quello del 2013».

L’ad ha poi aggiunto: «Ci siamo posti il traguardo di 7 milioni di vetture vendute all’anno aprendoci la possibilità di guadagnare almeno un’altra posizione nella classifica globale dei costruttori. Le nostre vendite saranno distribuite in modo bilanciato nelle 4 aree geografiche, anche in Asia». Marchionne ha spazzato via i rumors di alleanze o cessioni: «Vendere Fca ai tedeschi? Mai».

Tra i sindacati gli umori sono differenti. La Uilm con Rocco Palombella augura «lunga e buona vita alla Fca». Più sobria la Fim: «Non sono molto interessato agli aspetti emotivi dietro all’ultimo giorno torinese – dice Ferdinando Uliano – Marchionne dovrebbe parlare ai lavoratori di Cassino e Mirafiori, dicendo loro cosa sta succedendo». La Fiom, sottolinea invece, come «sia stata sancita l’uscita del Gruppo dal nostro Paese, il tutto, nel solito silenzio assordante della politica».

Michele de Palma, coordinatore nazionale Automotive, si è rivolto alle parti in causa: «Marchionne ha annunciato l’obiettivo di produrre 7 milioni di autovetture l’anno. In Italia esiste una capacità produttiva per 1 milione di auto. Facciamo un appello alla responsabilità di tutti: per cogliere la sfida della competitività del nostro Paese serve un confronto in cui governo, azienda e sindacati facciano la loro parte per garantire il futuro produttivo e occupazionale, partendo dallo sviluppo di auto ecologiche e sicure».