Just a perfect day, è stata «proprio una giornata perfetta», quella della velocità dopo la lentezza, quando negli ultimi cento metri la gioia ha superato la paura. Quelli di Tokyo 2020 sono stati i Giochi della rincorsa, ma anche due bolle, quattro lettere, cinque cerchi. Sono stati un marchio con su scritto la data di un anno fa e almeno quello dovevano salvarlo, anche se si è corso, nuotato o tirato un anno dopo, nell’estate impaurita di questo 2021. Gli altri marchi, più o meno, avevano tutti tagliato la corda, per primo quello della Toyota. Non se la sentivano di essere accostati alle Olimpiadi sgradevoli, perché è così che si sono presentate ai nastri di partenza, tra le paure degli abitanti di Tokyo, i numeri del contagio presto in salita e l’insidia delle nuove varianti della pandemia.

Tokyo decadence è iniziata così, in un’altra bolla. Nel libro e nel film del maestro Murakami protagonista era la «bubble economy», la grande bolla speculativa della Finanza anni Ottanta e Novanta, con i suoi personaggi a galleggiare tra perversione e disperazione. Tokyo, nell’estate del 2021, è stata la bolla dei villaggi olimpici e dei suoi abitanti, strategia già vista ai tempi del Coronavirus e che ha permesso di «limitare» a poco più di trecento i contagi rilevati tra atleti e componenti delle varie delegazioni. Fuori, la città di Tokyo e il resto del Giappone olimpico, sono rimasti in una sorta di lockdown, non imposto, ma semmai indotto dalle ansie della malattia.

Ecco, la velocità dopo la lentezza è stata una delle colonne sonore di questi Giochi e nella trama di un film lungo un mese ci sono molto scene clou. È probabile, però, che in Italia le immagini chiave siano arrivate venerdì mattina, quella è stata davvero l’equinozio di «un’estate meravigliosa» come l’ha già definita lo scrittore e giornalista Gabriele Romagnoli, che probabilmente aveva in testa la musica di Diodato.

L’ITALIA, quando vi stiamo scrivendo, ha già battuto ogni primato, ha importato una quantità incredibile di metalli pregiati: dieci medaglie d’oro, dieci d’argento, diciannove di bronzo. In totale sono 39, meglio di qualsiasi edizione moderna dei Giochi, battendo i 36 podi che resistevano dall’edizione del 1932 a Los Angeles, eguagliati poi in quella casalinga, a Roma, nel 1960. Però i numeri non bastano, comunque anche per loro è meglio provare a cogliere qualche sfumatura, per esempio quella che racconta come cinque medaglie arrivino dall’atletica: sarebbe un peccato ignorare la cosa, è l’atletica la regina dei Giochi. È venerdì mattina, quando Antonella Palmisano avanza verso il traguardo della venti chilometri di marcia. Porta come sempre un fiore di stoffa tra i capelli, tiene una bandiera tricolore sulle spalle che vola via prima che l’impresa sia finita. Vince anche lei, l’oro della lentezza, per non dimenticare quello che è stato e la volontà (collettiva) che servirà per finire la marcia e uscire finalmente da questo tempo malato.

VENERDÌ è il giorno perfetto, perché dopo la lentezza arriva la velocità e anche questo sarà un gran gioco di squadra. È la gara della staffetta 4×100. Parte benissimo Lorenzo Patta, che è praticamente un esordiente. Così al primo cambio siamo già messi bene, poi il testimone passa al fulmine Marcell Jacobs, un italiano nato in Texas, semplicemente l’uomo più veloce di questo mondo, già medaglia d’oro nei 100 metri di Tokyo. L’ultima frazione, la quarta, è la grande rimonta di Filippo Tortu, uno splendore di ragazzo, che prima della pandemia gli italiani vedevano come l’unico azzurro capace di centrare un podio olimpico. Dieci metri di rimonta sull’Inghilterra, che anche in una corsa così sono un attimo. Oro. Ma è la terza frazione quella che va raccontata. Il terzo deve essere bravo in curva. Eseosa Fostine Desalu non è bravo, in curva è mostruoso. Lo chiamano Fausto, in assonanza con Fostine. Ha 27 anni e di curve ne vede da una vita. È arrivato in Italia dalla Nigeria con sua mamma ed è solo lei che lo ha cresciuto.

ED È LEI che, la sera dopo la vittoria, ha gentilmente declinato l’invito di una trasmissione della Rai. Volevano intervistarla, lei doveva badare a una persona anziana, è il suo lavoro. È il senso del dovere, che Fostine deve aver preso dalla mamma e dalla vita. A Desalu hanno dato il nome di Coppi, che portò fuori la testa degli italiani dalla seconda guerra mondiale. Nel 1949 vinse tutto, Giro d’Italia e Tour de France, solo allora la gioia di un Paese iniziò a superare la grande paura. Per questo la medaglia d’oro di Desalu sembra brillar anche di più. Sono state le sue Olimpiadi, nei Giochi dell’orgoglio Lgbt, dei volti di Mao sulle tute delle cicliste cinesi per una propaganda decisamente pop, delle fughe dalla Bielorussia, dei cazzoti cubani, del calcio oscurato e riacceso per un attimo dalle parole del «fantasma» Donald Trump, riemerso dal nulla per prendersela con le calciatrici statunitensi, «sconfitte perché troppo a sinistra». Pace all’anima sua.

I GIOCHI, però, non cambiano il mondo. Lo raccontano, poi realizzano o spezzano sogni. Ora, per capire come andrà a finire dopo, bisognerà provare a correre in curva come Fausto. Con la resistenza e la disciplina di una ragazza che porta un fiore di stoffa tra i capelli. Poi sarà un giorno perfetto, tutti al parco. Come in quella struggente canzone di Lou Reed, che sembrava di ascoltare quando il cuore di Filippo Tortu tagliava il traguardo.