Il calcio oltre le barriere. Che disegna sulla stessa mappa tifosi divisi da chilometri di filo spinato. Anzi, da due muraglie che si estendono da 35 anni tra San Diego, California, e Tijuana, in Messico. Quattordici miglia, 22 chilometri e mezzo tra i latinos che Donald Trump non vuole a casa sua – disprezzati e umiliati dalla decisione di portare a termine il muro che separa il Paese centroamericano dagli Stati uniti -, con la California separata dalla Baja California messicana. Poco oltre il confine scende in campo il Club Tijuana Xolos, prima divisione del campionato messicano. Con una storia che forse piacerebbe poco al presidente degli Stati uniti.

 

 

I tifosi del Xolos infatti sono sia americani che messicani, uniti dalla grande passione per il football. Qui non c’è spazio per episodi di intolleranza, sulle tribune siedono insieme. Anzi, oltre il 30% dei sostenitori del club messicano si trova a San Diego. E non c’è traccia di quel muro antropologico minacciato dal nuovo inquilino della Casa bianca. Per ora Tijuana è l’esatto opposto: è la terra di frontiera più trafficata al mondo. Un flusso ininterrotto di persone. Trenta milioni di auto registrate l’anno che sfrecciano alla frontiera. Tra cui molti dei calciatori del Club Tijuana che si allenano e giocano in Messico ma vivono negli Stati uniti, a pochi chilometri, compiendo il percorso inverso di migliaia di messicani diretti per lavoro a San Diego o nei dintorni.

 

 

Dai megafoni dello stadio del Club Tijuana, l’Estadio Caliente, arrivano messaggi sia in inglese che in spagnolo. E nel parcheggio dell’impianto oltre la metà delle targhe delle auto sono californiane. Tifosi che nel weekend tirano fuori il Suv dal garage e in 30 minuti – racconta in un reportage il New York Times – lasciano il territorio americano per mischiarsi ai muchachos. Una fotografia in scala ridotta di quel progetto – anzi, qualcosa in più – della Fifa e del soccer americano in vista del 2026: un’edizione congiunta dei Mondiali di calcio, inserendo nel pacchetto dei paesi organizzatori anche il Canada. E che ora, con Trump accomodato nella sala ovale, si è maledettamente complicato. Anche il rituale prepartita dei Xolos è una storia di confine capace di acce assieme due diverse visioni del mondo.

 

 

Capannelli di tifosi intorno ai barbecue, tra carne piccante, birra, liturgia messicana prima del fischio d’inizio. Ma negli ultimi anni è stato trapiantato il seme dello show business dello sport a stelle e strisce, con l’esibizione prima delle gare delle cheerleader. A poca distanza dai Suv arrivati dalla California e da altre zone del Messico per la partita, sventolano tre bandiere: quella della Tricolor, quella statunitense e dei Xolos, nera. Integrazione? Sì, anche questa è integrazione. Anche se fino a dieci anni fa il soccer a Tijuana era utopia quasi quanto potesse apparire un anno fa l’elezione di Trump e la folle idea del muro. E poco oltre la frontiera c’era spazio quasi solo per la Nfl, il football primo sport nazionale negli Stati uniti e invidiato dai messicani. Poi Tijuana ha cominciato a bruciare di passione per il calcio con i Xolos.

 

 

Certo, la vicenda del Tijuana non è solo rose e fiori. La città è anche casa di violenza, di malaffare. E il patron della squadra, Jorge Alberto Hank Inzunsa (e come lui il padre Jorge Rank Rhon, fondatore del club) risulta personaggio controverso, il cui business è legato ai casinò. E il gioco d’azzardo è un business che richiama anche più del soccer oltre il confine con la California. Mentre i rapporti istituzionali tra San Diego e Tijuana sono buoni, anzi ottimi. A San Diego la Major Soccer League non è ancora arrivata. E il Club Tijuana, il club di frontiera, piace sempre più negli Stati Uniti. Ma non ditelo a Trump.