Matteo Renzi ha potuto portare ad Angela Merkel, ieri a Berlino, non solo il suo «ambizioso» (parole della stessa cancelliera) piano economico, ma anche qualcosa di già realizzato: ovvero il decreto Poletti sui contratti a termine e l’apprendistato. Il presidente del consiglio ieri ha spiegato la filosofia di quel provvedimento, e lo ha fatto proprio nel paese che traina tutta l’Europa e che insieme spinge costantemente verso i sacrifici e il rigore: «La pretesa di creare posti di lavoro attraverso una legislazione molto precisa, restrittiva è fallita – ha detto il premier – Ora bisogna cambiare le regole del gioco».

Lui, Renzi, sta tentando di farlo, e ieri – obblighi di cortesia – ha riconosciuto alla cancelliera che «la Germania è il punto di riferimento delle nostre politiche del lavoro». Ma nonostante la campagna quasi napoleonica di conquista di Renzi, che con velocità e blitz inaspettati inanella riforme e le presenta al pubblico e ai suoi colleghi al vertice degli altri paesi, in Italia il dibattito sui contratti a termine non si è ancora concluso. Anzi sarebbe più corretto dire che è appena iniziato, da qualche giorno, visto che deve star dietro ai tempi renziani.

La segretaria della Cgil Susanna Camusso ieri ha ribadito che la Cgil farà di tutto per cambiare il provvedimento in Parlamento, perché «aumenta la precarietà». Opinione condivisa anche dal leader della Fiom, Maurizio Landini (e almeno su questo punto le due organizzazioni vanno d’accordo). Mentre gli altri due sindacati, la Cisl e la Uil, hanno già dato disco verde alla riforma del governo.

«Se un contratto è prorogabile otto volte che differenza ci sarà con un lavoro a chiamata se puoi interrompere il contratto ogni volta? – si chiedeva ieri Camusso, parlando davanti ai delegati della Cgil di Roma e del Lazio – E che intervento di qualità sul lavoro è mai questo se si mette un lavoratore nella perenne condizione di sapere che dopo tre mesi il contratto è finito? Dobbiamo chiederci se siamo di nuovo di fronte a una stagione che promuove il lavoro purché sia. E potrà pure darsi che qualche posto in più lo creino ma mi chiedo: qual è la prospettiva che si offre?».

Quindi pollice verso, e l’annuncio di una campagna di pressione, anche se certo la scelta della piazza (o addirittura dello sciopero) tra gli 85 euro in busta paga e la distanza da Cisl e Uil, a questo punto appare difficile e quasi proibitiva: «La Cgil si confronterà con i gruppi parlamentari provando a chiedere modifiche al decreto lavoro», annuncia Camusso. Infine la segretaria ha risposto a una domanda sulla tempistica della reazione del sindacato: «Abbiamo detto la prima sera, contemporaneamente, quanto eravamo contenti e soddisfatti della restituzione fiscale e quanto eravamo preoccupati sul lavoro. Quindi non vedo dove sia il ritardo».

Renzi stesso, ieri da Berlino, ha ammmesso che in effetti qualche problema il decreto lo ha incontrato, sulla sua strada: sul Jobs Act «forse in qualche parte del sindacato ci sono stati dissensi», ha detto il presidente del consiglio.

Modifiche vengono annunciate anche dalla minoranza del Pd, i «non renziani» o «bersaniani» che dir si voglia. Uno dei principali avversari di Renzi, l’ex viceministro all’Economia Stefano Fassina, spiega che il dl Poletti «è in continuità con la ricetta che vede nella precarietà la via per generare lavoro. Ma non è così: il lavoro dipende dalla domanda aggregata, dagli investimenti, dal livello di attività produttiva. L’intervento, per come è confezionato al momento, prefigura un altissimo rischio di aumentare la precarietà, senza creare neanche un posto di lavoro in più».

Dunque nel Pd si prevede un dibattito, che potrebbe sfociare in un tentativo di modifica in Parlamento, annunciato anche dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. L’ex ministro del Lavoro del governo Prodi concorda nel ritenere che «tre anni senza causale sono troppi» e spiega che «deve rimanere centrale il tempo indeterminato».

Intanto da Ncd continuano a plaudere al decreto. In particolare l’ex ministro Pdl del Lavoro, Maurizio Sacconi, che sicuramente ha contribuito a definirlo: «Le novità introdotte – dice – indicano la direzione di marcia del governo».