Nel panorama per molti versi omogeneo (fino a renderli in qualche caso interscambiabili), i festival estivi assicurano una qualche circolazione di spettacoli nuovi, qualche apparizione dall’estero, e nuove produzioni che rodano al debutto i propri prossimi giri invernali. Quello di Spoleto, per motivi storici che vanno dalla cornice suggestiva alla vicinanza con Roma che garantisce un ampio bacino di pubblico, resta uno dei principali e dei più ricchi, con un eccesso forse di titoli che, in due giorni ciascuno e altrettante repliche, bruciano la loro presenza e aumentano il loro «desiderio» con gli esauriti. È stato così per artisti di lustro come Nekrosius e Moni Ovadia, Tim Robbins e l’omaggio a Patrizia Cavalli di Mario Martone e Alba Rohrwacher. Anche Bob Wilson ha confermato la forza del proprio marchio con due sole repliche di una creazione di qualche anno fa, poco «seduttiva» quanto invece testimoniale, che prova la ricerca da parte dell’artista texano di ancoraggio ai padri della cultura novecentesca.

Come era accaduto, ad esempio, con Beckett attraverso L’ultimo nastro di Krapp (visto proprio allo stesso Caio Melisso). Stavolta è John Cage la «paternità» indagata: una ascendenza non letterale ma certo di forte impatto, da parte di uno come Wilson che nel 1976 con Philip Glass ha posto i fondamenti, quasi l’archetipo, della contemporanea opera musicale con Einstein on the beach (a ripensarci ora, un titolo che rivendicava già un’altra ascendenza).

09vi1bobwilson

Il pubblico entra nella sala ormai ribattezzata Fendi, e lui è già in scena, in un biancore abbacinante (e a temperatura sottozero) che va dai grandi fogli alle pareti, da dove occhieggiano frasi e parole, alla biacca sulla faccia e al candore degli abiti suoi. Seduto a tavolino comincia a distillare, con la lentezza che arricchisce ogni andito verbale, quella Lecture on nothing del musicista americano. Geometricamente sezionata e scandita, fino all’ultima parte che si moltiplica nella ripetizione. Per la quale Wilson si concede qualche occhiata d’intesa, e perfino un pisolino su apposita brandina in proscenio.

Il pensiero è struttura. Ad un tratto sul piccolo schermo alle sue spalle, compare un sorprendente Majakovskij, altro padre/compagno di strada. Il pubblico pazienta in religioso rispetto, ma poi scoppia l’applauso finale che Wilson, vero cofondatore del teatro della modernità, ripaga con qualche piroetta , e anche una strizzata d’occhio. Al buon intenditor, o anche spettator.

Di tutt’altro genere ed energia arriva invece a compimento (ancora oggi e domani, nella navata austera di San Simone) il viaggio dell’eroe greco che Emma Dante aveva intrapreso già un anno fa (a Palermo prima, da dove il manifesto ne aveva riferito, e poi a Vicenza). Odissea A/R completa con il ritorno di Ulisse in patria quella incresciosa situazione che avevamo visto divampare nella reggia di Itaca, tra l’imbarazzo di Penelope davanti alla sua tela e i Proci scatenati nella loro maschia volgarità.

L’artista (che oltre al testo cura regia, costumi e materiali di scena), ripercorre fedelmente tutti gli elementi del racconto mitologico, a partire da Zeus culturista, l’erotica Calipso tentatrice, l’ambiguo Ermes, fino alla nutrice Euriclea e al cane Argo che sanciscono l’identità del padrone ritrovato.

Tutti presenti in scena, ma dentro un vero e proprio musical (cori e canzoni suggestivi) che non mancherà di catturare nella prossima stagione il pubblico italiano nel ripasso fedele dell’epopea omerica. Non solo per il fascino «di superficie», ma perché la sapienza scenica di Emma Dante regala molti momenti memorabili, immagini emozionanti che sicuramente evocano ad ognuno qualche personale nostos, un ritorno di memorie o di esperienze cui nessuno può sfuggire.

Valga per tutte la bellissima scena della lunga tela nera che la regina ogni giorno tesseva per disfarla la notte, e qui si srotola in infiniti metri di nero velo, pronto a trasformarsi in funebre sudario.Ancora una volta l’autrice attinge con intuito e maestria a tradizioni e gesti di antica umanità mediterranea, per restituircele come comprensibile e contemporanea antropologia comportamentale. Se intelligenza e valori, magari usati con astuzia come a Ulisse si conviene, riescono a sbaragliare l’arroganza ormonale e criminale degli usurpatori e delle loro cortigiane, è perché in questo grande affresco picaro e balneare, mantengono fiducia e forza nelle qualità migliori della creatura umana.

Come testimoniano anche i venticinque giovani attori e attrici che al racconto danno corpo (spesso in tenuta da spiaggia, ma è il minimo trattandosi di acque e di isole) che lo spettacolo sono andati creando, provando e assorbendo lungo i due anni di corso presso lo stabile di Palermo, che ne è ovviamente il produttore. Anche un testo superclassico come l’Odissea può dare suggestioni per l’immediato futuro: di andata e ritorno, come da titolo.