I cimiteri sono per eccellenza i luoghi di conservazione della memoria, ma anche delle lunghe passeggiate e dei ragionamenti sulla vita, la morte e l’assoluto che facciamo scrutando volti sconosciuti, leggendo epitaffi, rinominando persone nell’aneddotica dell’assoluto quotidiano. Ma sono anche la Storia, con i suoi personaggi, le gesta, gli eroismi, e le dimore di artisti, in tombe sobrie o monumentali e kitsch, nei marmi luccicanti o scuriti dal tempo, i ricordi fascinosi del cinema in bianco e nero, i versi epici dei poeti. Tutto questo, ma molto altro, è in un libro di Valeria Paniccia, un po’ ondivago e sull’onda dello sconfinamento e della chiacchiera colta, che ha un titolo altisonante e anche ironico: Passeggiate nei prati dell’eternità (Mursia, 2013), ispirato a Extraterreni, una fortunata serie televisiva RaiSat Extra, scritta e condotta dall’autrice.

Il libro non è la trascrizione a freddo di quelle godibilissime passeggiate filmate dalle telecamere fatte all’interno del cimitero Monumentale di Milano, l’Acattolico e il Verano di Roma, il Père-Lachaise di Parigi o l’Hollywood Forever di Los Angeles, tanto per citarne alcuni, con personaggi carichi di racconto e di passioni come Toni Servillo, Massimo Cacciari, Pupi Avati, Margherita Hack e José Saramago tra gli altri, compreso un Franco Cordelli che ricorda l’amico Dario Bellezza, ma anche Gadda e Gramsci, ma a quei parlatori si aggiunge un partecipato racconto dei luoghi, la notazione di un passaggio che è una via crucis fatta di storie tra vita e destino, incursioni che depistano, portano altrove, come spesso capita a chi cammina compenetrato in questi luoghi del silenzio. Tanto che, a volte, l’autrice apre delle lunghe parentesi che diventano delle piccole biografie, e queste vite scritte prendono il passo più discreto e meno diretto dell’alta voce.

Il condensato narrativo di ogni cimitero si lega poi al sedimentato storico delle città, ma anche al suo genius loci, allo spirito con il quale, prima che la morte arrivi, si affronta la vita e le si dà un senso nell’operosità o nella contemplazione, nell’io privato o nel noi collettivo, proprio in virtù di un secolare precipitato complessivo di cultura. Così come i personaggi interpellati aprono a pensieri filosofici, s’interrogano sul credere o non credere, intrecciano il proprio percorso esistenziale a quello di un albero genealogico complesso (come per esempio Saramago a Genova, che racconta dei suoi dialoghi con i morti).
Queste città senza tempo diventano anche meta di pellegrinaggi, soprattutto letterari, e il libro ha un rosario di nomi di scrittori come memoria del tempo, e io stesso appartengo a quella schiera di visitatori devoti che amano andare a visitare certe tombe sulle tracce dei propri miti, come è accaduto con Brecht a Berlino, o in quel ben di dio del cimitero parigino di Montparnasse, dove in un piccolo spazio puoi incontrare le tombe di Baudelaire, Guy de Maupassant, Julio Cortázar, Jean Paul Sartre e Samuel Beckett.

Nel libro di Valeria Paniccia, dove ogni tomba diventa una storia, ci sono molti artisti, poeti e scrittori, musicisti. Come il Pound nominato da Cacciari a Venezia, Keats e Shelley nel ricordo della Hack, Primo Levi nelle citazioni di Don Ciotti a Torino, Pupi Avati che parla di Carducci, non dei suoi versi ma della corporatura: «Era tarchiato, barbone, voglioso di vita», Lili Brik e Majakovskij al Novodevichy di Mosca con l’inviato Rai Demetrio Volcic.

C’è poi l’architettura, l’arredo dei viali, i marmi di Carrara e i bronzi, le opere d’arte, e anche quelli hanno una storia, come Vita Eterna dello scultore norvegese-americano Andersen, o il Dramma Eterno di Giulio Montevederde, la tomba realizzata da Medardo Rosso per lo «scapigliato» Filippo Filippi, perché anche il significato della morte, la sua rappresentazione, assume una sua precisa forma, come ci ricorda Gae Aulenti descrivendo il Monumentale di Milano.

L’ultimo capitolo ha come ambientazione l’Hollywood Forever di Los Angeles, dove c’è il loculo della «più immortale», come ben scrive l’autrice (accompagnata dal regista Gabriele Muccino) delle attrici di tutti i tempi: «Su una piccola targa in bronzo è scritto: Marilyn Monroe 1926-1962. Sul lato destro, un vasetto oblungo con tre rose bianche fresche, due rosse appassite, una gerbera fucsia e tre piccole orchidee violacee». Proprio lei, Marilyn, quella che «sparì, come una bianca ombra d’oro», come scrisse della bambina splendente in una sua celebre poesia Pier Paolo Pasolini.