Una vecchia canzone irlandese recita: «green Island lies like a leaf upon the sea». L’isola verde che galleggia come una foglia sul mare. Un’isola quasi fluttuante, come la Laputa di Jonathan Swift. Ma più reale: un’isola di smeraldo che nell’immaginario ricomposto dai miti e dalle leggende celtiche, viene spesso associata alla donna, al principio della femminilità. In quegli spazi in cui la memoria si intreccia al sogno esisteva persino un’isola irlandese delle donne, the Island of Women, il Tir na mBan, uno degli spazi archetipici dell’ultraterreno, nella mitologia celtica.

ERA UNA TERRA governata da donne a cui approdò Bran durante il suo viaggio, per restarvi, assieme ai suoi fratelli e compagni, più di qualche tempo. Una storia, la loro, che ricorda quella di Odisseo, coi suoi vari soggiorni in terre femminili – sempre alla faccia della fedele Penelope. Sono luoghi inventati e fatati, quelli irlandesi; come Hy Brazil, altra isola leggendaria che si immaginava riposasse tante miglia a ovest dalle coste d’Irlanda, e che finì per essere inclusa persino in certe cartografie ottocentesche. Identificata da alcuni con le Azzorre, per parafonia il suo nome farebbe pensare al Brasile, ma non vi è alcuna corrispondenza. Pure coincidenze, come sempre all’incrocio tra il rimembrare e l’invenzione. O forse no. Com’è il caso di un’altra isola archetipica, uno dei luoghi ultraterreni di cui ci parlano le antiche saghe celtiche, Eamhna, talvolta identificata con il regno del dio del mare, Manannán mac Lir, e collocata nel mezzo del cammino che, proprio per mare, dall’Irlanda porta al Nord dell’Inghilterra, ovvero l’isola di Man. Ma anche qui, chi può dire che il nome non ricordi di lontano l’antica capitale dell’Ulster, Emania, o Emain Macha (ovvero Navan Fort)?

QUELLA CAPITALE abbandonata dopo un rovinoso incendio, secondo gli Annali dei quattro maestri, all’inizio del IV secolo dopo Cristo. Situata ad Armagh, oggi nel cuore dell’ultima colonia d’Europa, fu la culla dei miti celtici del Ciclo dell’Ulster, e ospitò quell’Irlanda pagana, pre-cristiana, su cui poi andò a impiantarsi il pragmatico insegnamento di Patrizio. Non c’è dubbio, l’Irlanda è quasi sempre donna negli scenari del mito, e anche nelle rivisitazioni storiche, soprattutto per il suo rapporto secolare con la vicina isola maggiore, la terra degli invasori; e sebbene a quest’ultima ci si riferisca spesso con l’epiteto «la perfida Albione», di femminile sappiamo che ha veramente ben poco. E l’ha dimostrato.

L’IRLANDA È ANCHE donna perché inarrivabile, collocata sempre in un altrove che è meta di viaggi infiniti, viaggi non ancora pensati. E donne sono, sempre nelle ricostruzioni dell’immaginario, le personificazioni di tanti suoi luoghi, come di chi quei luoghi solca. Primi tra tutti i fiumi; come l’Anna Liffey che riporta alla luce della ribalta il principio femminile di quella Dublino da lei attraversata; e per estensione la femminilità dell’isola tutta identificata con la Sean-Bhean bhocht, ovvero la «povera vecchia donna», nome metaforico e segreto dell’Irlanda. Un’Irlanda violentata, sottomessa, eppure mai doma, che dalle miserie della vecchiaia può tornare giovane, sempre che in lei si creda e se per lei si sia pronti a morire. Come nella ballata anonima Shan van Vocht, in cui la povera vecchia canta questi versi profetici sul futuro dell’isola: «Quali colori dovremo vedere / Lì dove le case dei padri sono state / Sempre tinte dal verde immortale?». E donna fu pure la famosa Regina Pirata, Granuaile, che si dice fu ricevuta da un’altra grande donna della storia, nientemeno che la regina Elisabetta. Il suo nome, anglicizzato in Grace O’Malley, ci parla di grazia, ma anche di indomito coraggio; e la sua figura leggendaria è ammantata dalle brume del mito.

L’EPITETO È PER METÀ una traduzione per metà un’assonanza. Gráinne vuol dire grazia e dunque Grace, mentre maol sta per «calvo», o «con il cranio rasato». Il tutto nasce da un evento che ha del folclorico.
Si narra di come da giovane volesse seguire il padre in una spedizione commerciale in Spagna, ma le fu detto che i suoi lunghi capelli sarebbero rimasti intrecciati alle funi dell’imbarcazione; quindi niente da fare. Al che lei li tagliò di netto, e il genitore dovette cedere. Questa regina dei mari del Connaught (la regione occidentale dell’Irlanda) affrontò intrepida le onde, per anni. Come quando, a seguito del rapimento di due suoi figli e di un fratellastro da parte di un governatore inglese, attraversò il canale di San Giorgio per conferire con la regina stessa e ottenerne la liberazione.

Grace fu poi protagonista anche lei di un rapimento, che ebbe luogo in una delle località più misteriose della moderna topographia hibernica, e che dai percorsi della leggenda assume gradualmente forme sempre diverse e cangianti, grazie a dell’infinitudine della creatività letteraria. Si racconta, infatti, che attorno al 1575, di ritorno dalla visita alla regina Elisabetta, sbarcò a nord di Dublino e si recò dal lord locale, allora residente di un castello ora non più in grandissima forma, il castello di Howth. Di altro non aveva bisogno se non di qualche provvista per poter riprendere il viaggio verso ovest, e magari di essere invitata come ospite a tavola, la cena stessa della visita inaspettata. Purtroppo, la speranza di essere accolta non si concretizzò. I cancelli del castello per lei restarono chiusi, quella notte.

DI FRONTE A UN SIMILE smacco, non tanto a sé stessa, ma alla tradizione dell’ospitalità tipicamente irlandese che Joyce canta in The Dead – «I morti» o «Il morto», fate voi – la regina pirata scelse di rapire il figlio ed erede del signore di Howth, e lo portò via con sé per i mari dell’ovest. Ma non lo fece con cattive intenzioni: fu mossa, invece, dall’unico intento di insegnare una lezione al signorotto. E infatti, il giovane rapito fu poi rilasciato, ma sulla promessa che i cancelli del castello non sarebbero mai più rimasti chiusi all’ora di cena, e che a tavola sarebbe sempre stato sempre previsto un posto in più per ospiti inattesi. La leggenda si scontra però con la realtà, seppure incrociandola in qualche punto.

Se è vero che l’incontro con Elisabetta è da ricondurre al 1593, è anche noto che Grace si trovasse a Dublino nel 1576. Come poi venga riscritta in letteratura questa storia, è tutto un altro paio di maniche. Joyce, in quel suo Finnegans Wake in cui il promontorio di Howth è non solo il gigante Finn McCool padre di Oisin, ma anche il marito di Anna Livia (il fiume Anna Liffey), la ripropone ma raddoppia il numero dei figli rapiti. I loro nomi? Tristopher e Hilary, in onore del In tristitia hilaris, in hilaritate tristis del Candelaio di Giordano Bruno.

GRACE TORNÒ, infine, e per morirvi qualche anno dopo, nella sua cara Clare Island, dove ancora oggi vivono un manipolo di irlandesi assieme al suo fantasma. È un’isola rocciosa che dà sulle coste della contea di Mayo, altra terra di leggende. Da quei lidi, un po’ più a nord, a Sligo, nascono e crescono le tante storie di fate e spiriti maligni che affollano le narrazioni di Yeats. Racconti sempre in sospeso tra realtà e immaginazione, posti sul limen invisibile e impalpabile che separa il sogno dalla fantasia e dal ricordo. Un confine che è metafora dell’aldilà. E si ricordi che nella mitologia celtica non vi è un vero e proprio inferno. Solo luoghi dell’altrove, come il Tir na nÓg, landa dell’eterna giovinezza, dove i tre anni che vi trascorse Oisin in compagnia di Niam Chinn Óir, figlia di Manannán mac Lir, equivalsero a trecento anni passati sul suolo mortale. Questa è l’Irlanda dell’immaginazione, del verde eterno, l’Irlanda dei sogni perenni, un luogo favoleggiato, direbbe Blake, e Joyce con lui, che si contrappone all’Irlanda vera, divisa dalla storia, dilaniata dalle frizioni identitarie. È uno spazio dai confini fluttuanti, collocato nell’arcipelago di miti da ammirare, e da reinventare per poterne carpire il monito, e la saggezza.