Gli affezionati lettori di questo giornale conoscono bene quello che, da molti anni, è divenuto quasi un genere letterario: articoli, interventi, appelli che, periodicamente, in vario modo, proponevano una qualche ricetta per la rinascita o la ricostruzione di una “sinistra” nel nostro paese. Si trattasse di un nuovo partito, di una “lista unitaria”, o di una “rete”, questi appelli si sono quasi sempre rivelati assai caduchi o hanno prodotto risultati effimeri.

Ma da qualche tempo c’è una novità: non se ne leggono più, se ci avete fatto caso. Sono spariti: semplicemente, sembra che, per una sorta di sfinimento, nessuno abbia più nulla da dire a tal proposito o creda veramente che si possa inventare o dire qualcosa di originale. Appare benvenuto dunque il richiamo che Norma Rangeri ha riproposto su queste pagine: non appare più comprensibile, anzi appare persino intollerabile, il silenzio tombale che circonda questo tema.

Le varie forze residue, più o meno (molto meno che più) organizzate, si limitano a vivacchiare: con l’estremo paradosso che l’ultimo dei progetti falliti, quello di Liberi e Uguali, ha prodotto nondimeno un piccolo gruppo parlamentare che si è rivelato, inopinatamente, decisivo per il governo in carica ed esprime anche dei bravi ministri e sottosegretari. Ma “LeU”, ahinoi, è una sigla che vive solo nei sottotitoli dei telegiornali.

La “crisi della sinistra” è divenuta così un insopportabile piagnisteo: tutti a lamentarsene, tutti a celebrarne la “morte”, nessuno che muova un dito o tiri fuori una qualche idea. E dire che, guardando un po’ in giro, anche solo in Europa, il quadro non è poi così funereo.

Si potrebbero citare molti dati, ma basta scorrere i risultati delle elezioni in vari paesi europei, per scoprire che, accanto ad un partito socialista più o meno in salute, c’è spesso una formazione politica alla sua sinistra che ottiene percentuali dignitose, e che spesso è decisiva per gli equilibri di governo: non solo la Spagna o il Portogallo, ma – ad esempio – tra i casi più recenti, la Finlandia.

Per non citare poi le situazioni che hanno visto sì una sconfitta, ma sulla base di una forza elettorale ragguardevole: la Grecia, con Syriza al 31,5% e poi, naturalmente la Gran Bretagna, dove il Labour Party di Corbyn è stato sconfitto con il 32,1% dei voti (dopo essere passato, è bene ricordarlo, dal 30,4% del 2015 al 40,0% del 2017).

Non c’è che dire: è in Italia che la situazione è veramente patologica. Capirne le origini e le cause esula dai limiti di un articolo. E in ogni caso, sebbene utile, questo esercizio retrospettivo, o recriminatorio, non ci esime dalla fatidica domanda sul “che fare”, qui e ora, partendo da un assunto: ossia, che i partiti non si inventano dal nulla, nascono dalla combinazione tra l’emergere di nuove fratture sociali e culturali, “dal basso”, e un forte esercizio di una leadership unificante, “dall’alto”.

Podemos non sarebbe nato senza il movimento degli Indignados ma nemmeno senza il ruolo di Iglesias e del gruppo dirigente che si è mosso insieme a lui. E così per Tsipras e Syriza, in Grecia: una grave crisi sistemica, ma anche una forte capacità aggregante di una nuova leadership. In Italia, evidentemente, entrambe queste condizioni sono mancate: dobbiamo limitarci a prenderne atto o si può fare ancora qualcosa?

Tra i tanti elementi su cui riflettere possiamo qui richiamare un solo aspetto: in Italia viviamo, da un quarto di secolo, all’interno di quella che, giustamente, Miguel Gotor, nel suo ultimo libro (L’Italia del Novecento, Einaudi) ha definito la “Repubblica dell’antipolitica”: una pervasiva, egemone conformazione dello “spirito pubblico”, ma anche scelte sciagurate dei gruppi dirigenti (nel ceto politico, ma certo non solo), che hanno prodotto una crescente destrutturazione del sistema politico e alimentato una sistematica denigrazione dell’idea stessa di partito.

“Rifare” un partito, ma anche solo riformarlo o rilanciarlo, in questo clima, è davvero un compito improbo: e così si continua, da più parti, a rimestare l’acqua nel mortaio dei cosiddetti “contenuti”, a sottolineare le innegabili differenze che dividono l’area della sinistra, ma non si affronta mai il toro per la corna: l’esistenza o meno di un partito degno di questo nome, che abbia la necessaria massa critica, che abbia precisi confini organizzativi e rigorose procedure democratiche interne: e che perciò stesso permetta che la discussione politica avvenga in modo ordinato e produttivo. Aspettarsi che, da una pletora confusa di opinioni e di interviste, emerga un qualche accordo preventivo e che solo dopo si possa pensare al partito, significa restare impaludati nella condizione di paralisi in cui ci troviamo.

Questa situazione sta avendo un significativo effetto collaterale, ossia il fatto che, agli occhi di molti, il Partito democratico, nonostante le condizioni in cui versa e gli esiti disastrosi e fallimentari dell’idea stessa di partito che fu alle origini della sua fondazione, sia oggi visto come l’unica possibile carta su cui ancora puntare.

Ma, lo sanno bene tutti, anche dentro il Pd, che, così com’è, è solo parte del problema, non certo la soluzione.

Ora Zingaretti, nella sua ultima uscita, ha annunciato un “congresso” da cui possa sorgere un “partito nuovo”. Le premesse non sembrano molto promettenti. I messaggi lanciati sono piuttosto confusi, a cominciare dall’ennesimo, stucchevole appello all’”apertura” verso la “società civile”; ma quello del “partito aperto” non era già uno dei miti fondativi del Pd? Ci si vuole finalmente chiedere perché non ha funzionato allora, e perché dovrebbe funzionare oggi?

E’ vero che le modifiche statutarie approvate nel novembre scorso permettono oggi di svolgere un “congresso”, con il voto degli iscritti su “tesi”, o documenti politici; ma se davvero si vuole andare verso un “partito nuovo”, occorrono alcune fondamentali pre-condizioni, che soltanto possono rendere credibile questo processo di “rifondazione”. La più importante delle quali riguarda, e non sembri riduttivo, proprio le procedure democratiche: bisogna stabilire chiaramente chi e come decide sull’esito del processo.

Non può essere questo Pd, che ha vissuto una profonda mutazione, ad auto-riformarsi: bisogna che un processo “ricostituente” attinga forze ed energie dall’esterno, in grado di ridefinirne davvero il profilo e l’identità. Sarà possibile? Se ne dovrà riparlare più in dettaglio, quando capiremo se l’operazione “congresso” potrà avere quel respiro politico e culturale che oggi latita. Nel frattempo, fuori dal Pd, è bene interrogarsi sul da farsi: si aspetta di vedere cosa accade in casa d’altri?