Tutte le volte che qualche parte politica decide di riproporlo, il dibattito sul Ponte di Messina si accende immediatamente e la litania delle ragioni pro e contro si svolge secondo un copione ben consolidato.

Da una parte quelli che dicono che è indispensabile per lo sviluppo della Sicilia, anzi, questo sviluppo sarebbe inevitabilmente innescato dal ponte; i pro-ponte dicono anche che sarebbe una meravigliosa opera di ingegneria che darebbe lustro per sempre alle capacità tecnologiche italiane e che – naturalmente – non solo è fattibile ma è anche economicamente conveniente. Dall’altra parte ci sono quelli che dicono esattamente il contrario: sarebbe un bagno di sangue economico, tutto a danno della collettività e a vantaggio di alcune imprese.

Dicono che è dubbio che sia tecnologicamente fattibile con le necessarie condizioni di sicurezza, e che non innescherebbe affatto lo sviluppo economico della Sicilia; a questo aggiungono che sarebbe un gran favore fatto alle mafie ai due lati dello stretto e che l’impatto ambientale sarebbe devastante, senza dimenticare di sottolineare che comunque, a fronte di qualche decina di minuti guadagnati con il ponte al posto di un ben funzionante sistema di traghetti, per andare da Palermo a Messina in treno ci vogliono ancora più di tre ore e molte di più per attraversare la Calabria, visto che si tratta di linee ferroviarie vecchie, e in gran parte a binario unico. Quindi, dicono i no-ponte, prima di tutto occorre investire sulle ferrovie e sulle strade in Sicilia e in Calabria, e poi se ne parla.

Bene, è ormai chiaro che fra le due parti si è arrivati a una guerra di posizione, nessuna delle due opposte argomentazioni sembra avere la possibilità di prevalere sull’altra, e alla fine vincerà la parte che in quel momento ha più potere, mai sanando la frattura che si è creata nell’opinione pubblica.

E se invece proponessimo una chiave di lettura diversa del tema Ponte sullo Stretto? E la chiave di lettura diversa c’è. Infatti esaminando le ragioni dei pro e dei contro vediamo che sono tutte basate su una visione del mondo che riflette il passato, tiene poco conto del presente e non tiene minimamente conto del futuro. Ciò perché il mondo prefigurato, dentro il quale si pone il tema del ponte, sia per i pro che per i contro, è il mondo che c’era prima che si cominciasse a prendere coscienza della problematica ambientale globale, dal cambiamento climatico alla perdita di biodiversità.

Se consideriamo che gli anni che ci separano dal 2050 saranno caratterizzati dalla messa in atto di politiche tendenti a portare a zero le emissioni di gas serra e a fermare la marcia verso la sesta estinzione, discutere di ponte sullo stretto è privo di senso. E lo è per tante ragioni. Vediamole.

Manifestazione contro il ponte sullo Stretto, foto di Franco Cufari

La necessità/opportunità del ponte, secondo i pro, si basa sul fatto che attualmente attraversano lo stretto 11 milioni di passeggeri/anno, 0,8 milioni di veicoli pesanti/anno e 1,8 milioni di veicoli leggeri/anno, e che presumibilmente andranno ad aumentare, specie se il passaggio sarà facilitato dal ponte.

Si tratta di un assunto che va in netta contraddizione le linee guida del green deal europeo, perché uno dei pilastri del green deal è l’economia circolare, e l’obiettivo dell’economia circolare è la minimizzazione dei rifiuti attraverso la progettazione dei prodotti in modo che siano durevoli, riusabili, riparabili, ammodernabili e, infine, riciclabili. Ciò ha come inevitabile ricaduta la riduzione del flusso di prodotti nuovi che entrano nel sistema economico, a favore della manutenzione di quelli esistenti.

Dunque il flusso di merci che si muoverà da un capo all’altro della penisola finirà necessariamente per diminuire. E diminuirà anche per la tendenza, anche questa derivante dalla applicazione dell’economia circolare, a favorire l’uso di prodotti, specie quelli agricoli, originati in prossimità.

Se infine aggiungiamo il fatto che, sempre secondo le linee guida del green deal, bisogna tendere alla minimizzazione del trasporto su gomma, favorendo quello su ferro e marittimo, si vede che i numeri sopra citati, relativi al traffico pesante, non sono realistici in una prospettiva di sviluppo sostenibile.

Lo stesso avverrà per le auto, e possiamo prevedere che fra pochi decenni da centro urbano a centro urbano ci si muoverà col mezzo pubblico, e una volta arrivati ci si servirà del robo-taxi. Ben pochi possiederanno un’auto e viaggeranno in auto; certamente pochissimi per lavoro grazie anche al diffondersi delle videoconferenze. In questa prospettiva, senza mezzi pesanti e leggeri che pagano il pedaggio, naturalmente cadono completamente i presupposti del conto economico, e resterebbe solo l’impatto ambientale del ponte.

Queste ragioni però non sono le sole. Ce ne sono di più profonde. Infatti perché piace il ponte? Oltre che per il suo valore simbolico, il ponte piace per la velocità. Significa poter trasferire, ogni anno, più merci, significa crescere velocemente. Il nostro, quello del ponte, è un mondo del “veloce”, del “fast”. E così mangiamo fast food, vestiamo fast fashion, prendiamo tanti aerei per visitare velocemente in tre giorni Venezia, Firenze e Roma.

È la società dei consumi, e bisogna consumare sempre di più, accumulare sempre di più e velocemente spendere per acquistare sempre più prodotti, che nella maggior parte dei casi usiamo pochissime volte o mai, e poi velocemente buttiamo nella spazzatura. Ed è così che abbiamo consumato il pianeta, e con lui noi che ne siamo parte.

È un mondo che deve essere abbandonato, ce lo possiamo lasciare dietro sostituendo le fonti fossili con le rinnovabili, riducendo o meglio eliminando gli allevamenti intensivi, abolendo i prodotti usa e getta, mangiando cibo biologico, introducendo il concetto di limite, anche alla velocità, perché alla fine la sola velocità che conta, che ci può garantire un equilibrio con la natura, è la velocità di rigenerazione delle risorse naturali, dalle quali dipendiamo. E il ponte, che è al servizio della velocità, è un ponte che ci collega col passato e col presente che non vogliamo più.

E allora, a fronte di queste considerazioni, che senso ha investire per qualcosa che, se riusciremo a vincere la sfida ambientale, non servirà più, e se la perdiamo non servirà egualmente?