Per gli studenti italiani oggi è l’ultimo giorno di scuola. Via libri e quaderni e grandi sorrisi verso le vacanze. Ma non è così per tutti. Non è così per chi da anni non va a scuola o non ci è mai andato. E non è così per chi ci andava e adesso non ci può andarci più anche se almeno è riuscito a mettere in salvo la propria vita.

Il caso dei bambini siriani in Turchia, alle porte di casa nostra, racconta una realtà con numeri impressionanti: prima della guerra il 99% delle bambine e dei bambini siriani andava alle elementari e 8 su dieci fra loro proseguivano alle secondarie. Oggi, secondo l’Unicef, tre milioni di bambini siriani – fuori e dentro il Paese – a scuola non ci vanno più. Quella che era una grande conquista della Siria è oggi un cumulo di macerie come buona parte del Paese. I più “fortunati” sono in Turchia, nei campi profughi allestiti da Ankara grazie al buon cuore peloso degli europei che i siriani li vogliono vivi ma lontani dagli occhi e dal cuore.

Almeno in teoria, tutti i profughi della guerra siriana avrebbero diritto all’accesso al sistema scolare nazionale (che comunque presenta problemi di inserimento, dalla lingua alla logistica, al costo del materiale didattico). Ma non è proprio così. Se è vero – dice Human Rights Watch – che nei campi profughi il 90% dei bimbi siriani va a scuola, il numero non è di per sé rassicurante. La maggior parte dei bambini siriani vive infatti fuori dai campi in una situazione dove anche le più elementari regole dell’asilo vengono violate con più facilità: secondo Hrw, tra il 2014 e il 2015 la stima poteva essere del 25%, ossia un bambino su quattro. Grosso modo, a fine 2015, andava a scuola meno di un terzo dei 700mila bambini in età scolare entrati in Turchia negli ultimi quattro anni: 215mila bambini. E gli altri?

È ancora Hrw a illuminarci con una serie di interviste a famiglie di rifugiati in Turchia: che fanno i ragazzi? Lavorano. Dove? Fabbriche di abbigliamento o di frutta liofilizzata, laboratori per produzione di calzature, officine di meccanici, lavori stagionali in agricoltura come braccianti o raccoglitori di frutta. Ce n’è anche per le strade, a vendere stoffe, frutta, acqua. La polizia chiude un occhio. E lo facciamo anche noi pur se non volontariamente. Non è simpatico, ma i bambini siriani – e, quando riescono, i loro genitori – lavorano in produzioni che arrivano sui nostri mercati. Una storia che ormai si ripete quasi per tutto ma che questa volta è davvero dolorosa.

Il meccanismo è semplice e lo spiega un padre di 38 anni con sei figli che abita a Smirne: suo figlio di 12 anni a scuola non ci va. Cuce borse in un negozio turco. «Lavora cinque giorni e mezzo alla settimana e guadagna 500 lire turche al mese (circa 170 euro) – spiega il padre di Ahmed, 12 anni, agli intervistatori di Hrw – Io voglio mandare i miei figli più giovani a scuola l’anno prossimo ma ho bisogno dell’aiuto di Ahmed. Se lui non lavora noi non mangiamo». Niente scuola per Ahmed. Se lui non lavora la famiglia salta il pasto.

Il regime di Protezione Temporanea garantito dalle autorità turche ai rifugiati siriani è l’accordo che, sulla carta, li dovrebbe proteggere e garantire. Lo fa in un certo senso ma fino a un certo punto. I diritti cioè sono garantiti ma fino a dove? E quello sul lavoro non lo è per niente.

Secondo la ong Business & Human Rights Resource Centre, circa 2,2 milioni di siriani vivono in Siria ma solo 4mila fra loro hanno un regolare permesso di lavoro. A complicare le cose ci si mette la concorrenza dei turchi poveri che convive con una percentuale di disoccupazione del 10%. Si stima dunque che tra 250 e 400mila siriani lavorino illegalmente, senza cioè uno status regolare, il che li rende ricattabili ed estremamente vulnerabili. In una parola pronti ad accettare qualsiasi cosa. Adulti o bambini che siano.

Come succede spesso, i bambini finiscono per pagare il prezzo più alto. E non solo perché lavorano. Anche perché spesso vengono preferiti agli adulti: più ubbidienti e anche più facili da nascondere. Una stima precisa di quanti siano non esiste. Secondo un rapporto dell’Unicef del 2014, l’impatto della guerra siriana aveva gettato sul mercato del lavoro in Giordania, Libano, Iraq, Egitto e Turchia almeno un bambino siriano su dieci. Le statistiche turche dicono che sono poco meno di un milione i bambini – turchi e non turchi – che lavorano sotto l’età minima consentita che è per legge 15 anni. 300mila fra loro avrebbero tra i 6 e i 14 anni. Il problema – rileva Hrw – è che queste statistiche non sono attendibili. I bambini al lavoro e non a scuola sono molti di più.

Come nota giustamente l’Unicef, il problema del lavoro minorile o dei “bambini di strada”» non si può risolvere solo studiando la cosa in sé ma «osservando i problemi a casa o nella scuola che spesso forzano i bambini ad andare per strada…il lavoro minorile è l’effetto chiaro di una vulnerabilità causata da povertà e privazioni». Non si elimina l’uno senza l’altro.
Il problema è che in Turchia, come abbiamo detto, è difficile lavorare per un adulto: le Temporary Protection Regulation in realtà non regolano affatto ciò che un siriano può fare nel mercato del lavoro. E se non si può lavorare legalmente, se è difficile o impossibile ottenere un permesso di lavoro, si lavora nel mercato illegalmente. Grandi e piccoli.

Business & Human Rights Resource Centre ha cercato di vederci chiaro specie in relazione ai prodotti che vengono creati da questo mercato di manodopera illegale, adulta o infantile. La sua indagine Syrian refugees in Turkish garment supply chains su 28 marchi di abbigliamento che lavorano con la Turchia, rivela che molto pochi tra loro stanno prendendo misure adeguate per garantire che i rifugiati siriani non lavorino in condizioni di sfruttamento. Quattordici aziende non hanno nemmeno risposto al questionario inviato dalla Ong. Per loro il problema non esiste.

Il dossier spiega in dettaglio che solo tre “firme” si sono impegnate con le fabbriche in outsourcing per quel che riguarda il trattamento dei rifugiati e che in realtà – “lontano dagli occhi e dal cuore” – le aziende tendono a limitarsi a qualche raccomandazione senza in realtà controllare. I più virtuosi però si sono anche messi in contatto con organizzazioni della società civile (le campagne alla fine funzionano!), che conoscono bene i problemi locali di discriminazione dei gruppi più vulnerabili. Ma quel che manca è una vera azione di pressione sul governo che pure ha firmato tutti gli accordi internazionali dell’Ufficio del Lavoro delle Nazioni Unite. Forse una pressione che spetterebbe ai governi.