Cambiamo approccio. Raccontare l’esperienza di un corso di italiano per stranieri di cui faccio parte con colleghi, amici, studenti, cooperanti internazionali presso il Casale Garibaldi nel quartiere San Paolo di Roma mi impone un cambio di approccio e delle riflessioni personali. Per introdurre l’argomento spesso e volentieri si parte dal bisogno di rispondere alle esigenze dei migranti di ottenere una certificazione o dalla regolamentazione dei permessi e delle carte di soggiorno o dalla diffusione di scuole simili sul territorio. I dati sono importanti, le direttive legislative pure, ma la questione dell’integrazione linguistica è, dal punto di vista di chi scrive, soprattutto una questione umana. Chi viene per apprendere non è un numero a uso e consumo delle statistiche sull’immigrazione, chi viene per insegnare non è una persona che dedica semplicemente il proprio tempo agli altri, la nostra scuola non eroga alcun servizio assistenziale per conto terzi e per fini di terzi. La conoscenza dell’italiano non è un fine, ma un mezzo.
La scuola di italiano è parte di un progetto più ampio del Servizio Civile Internazionale, La Città dell’Utopia, volto alla costruzione di un modello di cittadinanza attiva che proprio quest’anno ha compiuto dieci anni; è un esperimento di educazione e autoapprendimento alla partecipazione e alla discussione comune, un luogo fisico in cui la socialità e la solidarietà diventano pratica. Sentirsi cittadino attivo è l’orizzonte entro cui inscrivere l’insegnamento dell’italiano e verso cui, con percorsi diversi, si dirigono studenti e insegnanti. Cittadinanza e immigrazione sono termini che dialogano tra loro e non si escludono a vicenda se per cittadinanza si intendono i processi di decodificazione e di presa di posizione nei confronti della società di cui si è parte e di cui bisogna sentirsi parte. La lettura della realtà, la presa di posizione nei confronti di ciò che avviene nella realtà, il sentirsi parte di essa sono esigenze di tutti, non solo dei migranti, e questo è il motivo per cui chiunque decida di intraprendere questa esperienza, sia come insegnante sia come discente, deve mettersi in discussione e contribuire alla creazione di uno spazio di condivisione diverso da quelli abituali. La conoscenza della lingua del Paese in cui si vive è uno degli strumenti possibili per l’inserimento ed è uno dei possibili elementi di raccordo tra cittadinanza (intesa sempre a livello pratico e non formale) e immigrazione.
Tradurre questo obiettivo nello specifico della pratica didattica richiede tentativi ed elaborazioni comuni, ma soprattutto capacità di ascolto e massima apertura al prossimo. I bisogni dei migranti non sono i nostri bisogni, le culture dei migranti non sono la nostra cultura, i loro interessi non sono i nostri interessi, le loro domande non sono le nostre domande. Riuscire a tenere insieme nelle lezioni necessità e curiosità, soddisfazione dei bisogni e nuovi stimoli è forse la sfida più impegnativa per chi prova da docente a intraprendere questo percorso. Se si ha davanti una classe con persone di tutte le età, di diversa estrazione sociale, con diverso grado di alfabetizzazione, di diversa provenienza non c’è preparazione o titolo professionale che tenga: l’insegnante è una persona tra le persone, semplicemente con un ruolo diverso. Non che non ci sia metodo, anzi, ma mai come in questo tipo di lezioni, gli insegnanti non sono libri e gli studenti non sono vasi vuoti da riempire.
Insegnare agli stranieri è un’esperienza estremamente formativa a livello personale e professionale. È il momento in cui si è collettori di umanità, in cui si scopre l’altro simile a sé, in cui si tocca il fenomeno dell’immigrazione trovandoci storie di ogni genere, alcune delle quali straordinariamente vicine alle proprie. Ma è anche l’occasione migliore per interrogarsi sul ruolo dell’insegnante e, anche per spiegare questa affermazione, debbo ricorrere a un aneddoto personale. Ci misi un po’ a capire l’affermazione che Sara, una collega, usò per descrivere il nostro lavoro: «Insegniamo l’italiano per dare forza all’autonomia e all’indipendenza nostra e dei nostri studenti». Di qualsiasi argomento si parla, l’importante è che l’elemento linguistico fornito non sia fine a sé stesso, ma sia uno strumento utile per leggere altro, per riflettere su altro, per capire qualcosa di nuovo sul giornale o in televisione; l’importante è che si finisca la lezione avendo unito l’utile al dilettevole e, perché no, avendo dato un’immagine diversa del Paese che gli stranieri spesso vivono solo come lavoratori.
Detto questo, alcuni dati ci sono ed è giusto darli per due motivi: mostrare quanto questi spazi di inclusione siano diffusi e socialmente utili e quanto la visione dell’apprendimento della lingua come dovere semplifichi estremamente un elemento chiave per l’integrazione. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Istat 2011) la popolazione straniera residente a Roma è di circa 300 mila unità e rappresenta più del 10% della popolazione; stando a dati diffusi riguardo nell’anno scolastico 2011-2012 dalla Rete Scuolemigranti (riferiti soltanto a alcune realtà della Capitale) gli iscritti ai corsi gratuiti di italiano L2 nelle scuole del volontariato e del privato sociale sono stati 11.146 e quelli iscritti ai corsi gratuiti di italiano L2 nei Centri Territoriali Permanenti sono stati 8.064. Ma a questo appello mancano tantissime altre realtà.
Ma perché l’insegnamento dell’italiano L2 è diventata un elemento così rilevante per la vita dei migranti? Il decreto 4 giugno 2010 del ministero dell’Interno ha introdotto l’obbligo per gli stranieri richiedenti il permesso di soggiorno (cioè per quelli soggiornanti a lungo termine nel nostro Paese) di attestare la conoscenza di base della lingua italiana, senza farsi carico di offrire alcun servizio o agevolazione ai migranti, senza mettere in campo una azione chiara al riguardo, ma limitandosi a gestire gli esami delle certificazione attraverso enti già esistenti. Gran parte del “sostegno” linguistico offerto è affidato alla libera scelta dei singoli e al volontariato, il più delle volte adeguatamente qualificato.
Alla luce di ciò insegnare italiano diventa una scelta politica che individui e gruppi intraprendono supplendo alle mancanze statali o in opposizione alle normative che disciplinano l’immigrazione e la condizione dello straniero – si ricordi che la legge quadro in vigore è ancora la Bossi-Fini del 2002. Gli immigrati non regolari, i cosiddetti clandestini, sono nascosti solo nelle statistiche e nei censimenti ufficiali, ma frequentano i nostri corsi il cui unico requisito di partecipazione è l’essere umani.