A questa 33a edizione del festival toccano due forfait: Tyshawn Sorey e Dr. Lonnie Smith. Peccato. Ma è sempre la rassegna più di punta in Italia. Prima di tutto una serata. Una di quelle occasioni in cui con la musica pensi che Salvini è sceso allo 0,1 per cento, i migranti viaggiano da un paese all’altro tranquillamente perché la parola confine è sparita dai dizionari, amore e rivoluzione sono ovunque. James Brandon Lewis e Rob Mazurek: sono loro che rendono memorabili i due concerti del 4 settembre. Lewis, saxtenorista, 35 anni, in duo col batterista Chad Taylor, un tipo che suona meraviglie senza bisogno di pirotecnie, è un coltraniano assai romantico. Come se Malcolm X coltivasse la melodia e ne facesse una bandiera per la rivolta. Dove Coltrane cercava la complessità Lewis semplifica il discorso. Un Ciaikovsky con il ruggito free. Da sballo.

Mazurek guida un gruppo inventato dal festival: Chicago London Underground. Lui, alla cornetta, è americano come Chad Taylor, di nuovo della partita. Il pianista Alexander Hawkins e il contrabbassista John Edwards sono inglesi. Tutti passionali: è la serata dei sentimenti accesi. Hawkins spettacolare: la sua è la tempesta ultra-free perfetta. Mazurek lirico e dirompente, virtuoso dello strumento come non l’avevi mai sentito. Questa musica ha a che fare con l’informale, col free, con certi motivi «confidenziali» subito destrutturati.
David Murray in trio. Si dice classico? Che cos’è la classicità nel jazz? Domande, sempre domande. Quello di Murray (al sax tenore e al clarinetto basso) è jazz moderno e jazz in buona misura nutrito di linfa free. Parte da Ben Webster e arriva vicino ad Archie Shepp, a volte oltre. Con voce potente e sensuale e con un ragionare logico/avventuroso. Murray non suona: vola! Non è sperimentale? Ma esperimenta vitalità e prontezza nel cogliere tutte le possibilità di espressione, di protesta, di libertà. Viaggiatore dei sogni e della forza dirompente dei sogni. È David Murray, il nostro «classico» eroe! Si conferma strepitoso nel Sant’Anna Arresi Black Quartet, dove gareggia con un grande James Brandon Lewis, e lo batte in audacia e fantasia. The White Desert Orchestra è una strana creatura. Coordinata da Eve Risser, francese, pianista e compositrice. Prendere per la coda l’idea centrale della musica che fanno le 6 strumentiste e i 4 strumentisti non è facile.

La modalità avant-garde è la prima che si presenta all’ascolto. Influssi free, procedimenti a frammenti in fluorescenza tipici di alcune opere di «contemporanea». Poi si passa a zone di unisoni ondeggianti e armonizzati in un clima lirico. C’è del rumorismo in introduzioni della chitarra e della chitarra-basso, ci sono squarci d’assieme con un che di raveliano. Tutto è in un work-in-progress. Roots Magic è invece un gruppo che va dritto allo scopo. Riletture di classici del jazz antico e moderno e contemporaneo. Attenzione al blues. Non solo a quello storico, quasi delle origini, di una sconosciuta Geeshie Wiley e di Charley Patton. Anche a quelli scritti da un Pee Wee Russell o da un Julius Hemphill. Ma, soprattutto, blues nel mood dominante delle calde divertenti ben arrangiate e ben vissute performance di Alberto Popolla (clarinetti), Enrico De Fabritiis (sax), Gianfranco Tedeschi (contrabbasso), Fabrizio Spera (batteria). Radicali con – finalmente! – nella testa e nel cuore la radicalità musicale «colta» sono gli A-Septic: Stefano Ferrian (sax) e Simone Quatrana (piano). Li aspetti in prove più meditate.

I sei del gruppo The Young Mothers messo assieme con musicisti americani dal contrabbassista norvegese Ingebrigt Haker Flaten fanno musica trash (una delle tante derivazioni dell’hard rock), musica free, rap. Il meglio lo danno quando il loro set diventa un sabba. I tre austriaci di Radian (chitarra, basso, batteria) – si ritiene che la mente sia il batterista Martin Brandlmayr – fanno rock con elettronica. Suoni gravi tenuti in clima di fredda tenebra con interiezioni di suoni struggenti della città tecnologica, scansione netta e cruda del tempo (quasi sempre un andante), un’osservanza della tonalità assoluta. Sono i nuovi Pink Floyd? Joe McPhee. L’attesa quando è lui di scena è sempre spasmodica. 78 anni, afroamericano, sassofonista e trombettista (quasi sempre alla pocket trumpet). Ospite dei Talibam!, un famoso duo avant-rock diventato solo monotono da schizoide che era, è a disagio, praticamente inutile. Lo ritroviamo e lo riconosciamo nel suo gruppo, A Pride of Lions. Ritroviamo il suo puntillismo pieno di pathos alla tromba, ritroviamo la sua poetica del tragico e del dialogo «alla Poe» con i fantasmi della contemporaneità, interpretato in chiave di immersione combattiva nello «spirito della crisi». Un partner come il sassofonista Daunik Lazro, con il suo idioma della radicale desolazione, gli è assai congeniale.

Il festival ha una sua pagina dolcemente epica. Struggente e incantata. Pagina di proiezione verso la grande trasformazione sociale in atto: l’esodo dei migranti. Sulla spiaggia di Is Solinas, al tramonto, Rob Mazurek e Gabriele Mitelli, tutti e due alla tromba e all’elettronica, suonano musica semplice iterativa lirica. E chiudono suonando dentro il mare, avanti e ancora avanti, immergendosi fino alle spalle. Incontro a chi potrebbe venire a cercare libertà e a portarne a noi che la stiamo perdendo giorno dopo giorno.