All’indomani dell’«ufficializzazione» della pista terrorista da parte dell’Fbi, rimangono tuttavia più interrogativi che risposte sui retroscena della strage di San Bernardino. Alcuni elementi sembrano a questo punto affiancarla ai gesti compiuti da «individui radicalizzati» come l’attentato alla maratona di Boston o la strage di Fort Hood da parte di Nidal Hasan nel 2009. Lo indicherebbero la meticolosità dei preparativi, l’arsenale ammassato da Syed Rizawan Farook e Tashfeen Malik, la tranquilla coppietta di periferia trasformatasi in commando assassino. Ci sarebbe poi quell post su Facebook, sincrono al massacro, in cui, con uno pesudonimo, Tashfeen Malik, avrebbe «giurato» fedeltà allo «sceicco» Abu Bakr al-Baghdadi.

L’attenzione degli inquirenti al momento è soprattutto su di lei, la ragazza di buona famiglia integralista pakistana cresciuta in Arabia Saudita laureata in farmacia con cui Farook, il docile, integrato ispettore sanitario della contea si sposò nel 2014 alla Mecca. I due si sono forse conosciuti attraverso internet. «Come marito posso dirvi che in tutti i matrimoni esiste una misura di influenza» ha detto nell’ultima conferenza stampa il responsabile delle indagini Fbi, facendo balenare l’ipotesi di plagio integralista da parte della donna ventinovenne. Una possibile «sposa manciuriana», insomma, volata nella profonda provincia americana dal cuore integralista del Punjab pakistano, epicentro di reclutamento islamico. Nell’ipotesi più azzardata, una jihadista che avrebbe adescato un tranquillo musulmano di seconda generazione, che nelle inserzioni online aveva cercato una «compagna che indossi il niqab». Qualunque sia stata la dinamica si delineerebbe una «immersione profonda» della coppia nell’insospettabilità di provincia; dall’appartamentino bilocale, l’auto d’ordinanza nel garage, l’impiego statale e la figlia neonata nella culla.

Una vita «sotto al radar» per una strage americana, a partire dalle vittime, piccoli impiegati pubblici che sono anche loro uno spaccato di provincia multietnica americana: l’ebreo messianico (con cui Farook avrebbe avuto diverbi ideologico-religiosi), l’afroamericana, la vietnamita di seconda generazione, gli ispanici. Assieme hanno trovato la morte assurda mentre scaldavano le vivande di una colazione aziendale di fine anno per mano di natural born killers piombati in mezzo al tranquillo tableaux. Se si rivelassero effettivamente agenti della «guerra», se il conflitto globale fra occidente e islam fosse infine giunto «ufficialmente» in terra americana, lo scontro di civiltà sarebbe sbarcato in una terra fertile: intrisa di fondamentalismo religioso, portata ai fanatismi. E satura di armi da fuoco.

San Bernardino, sonnolento sobborgo di 200 mila anime di uno degli hinterland più depressi della California, ha nella fattispecie 100 e passa parrocchie cristiane, 11 negozi di armi e dieci poligoni di tiro aperti al pubblico (anche se tutti sanno che per divertirsi un po’ con la pistola basta andare nel vicino deserto del Mojave). Questa è la capitale dell’Inland Empire – l’altisonante nome ironicamente omaggiato qualche anno fa da un film di David Lynch. In realtà San Bernardino al massimo è capitale di un impero del declino, un sobborgo al centro del cataclisma dei subprime, la gigantesca speculazione a base di muti «carta straccia» imbastita da banche e Wall Street specialmente sulle spalle dei proletariati “periferici” fino al catastrofico crack del 2008. Qui nella fattispecie il tracollo ha costretto il comune a dichiarare nel 2012 la bancarotta – maggiore città californiana a formalizzare il fallimento.

Oggi vicino alle chiese e ai commercianti di pistole ci sono anche quattro moschee, in realtà poco più di modeste cassette su strade polverose adibite al culto della comunità musulmana. Una suburbia multietnica come tante che si è trasformata nella capitale delle psicosi amalgamate di un’America in preda a una crisi di nervi. In questa fatiscente palude in cui da tempo è impantanato l’american dream, sembra ora cadere anche il mito dell’ingranaggio assimilatore di cui i Farook erano in apparenza paradigmatico esempio.

Da qui i postumi della strage di mercoledì continuano ad emanare concentricamente sul paese alimentando dibattiti e narrazioni sovrapposte il cui comune denominatore è l’endemica violenza. Neppure la strage di innocenti alla scuola elementare di Sandy Hook, ad esempio, è finora servita a imporre regole più severe sull’accesso alle armi. E poco dopo i fatti in California il senato ha bocciato un emendamento che avrebbe vietato l’acquisto di armi agli individui già inseriti nelle liste no-fly delle compagnie aeree. I repubblicani fautori della guerra a oltranza e dei metodi Guantanamo, sulle armi hanno motivato il voto contrario con la difesa dei «diritti individuali».

Ora alle esortazioni di Obama si sono aggiunte quelle del New York Times e di molti autorevoli politici. La domanda che sintetizza l’America post-San Bernardino è se una psicosi – quella del terrorismo islamico – potrà prevalere su una psicopatologia nazionale, l’attaccamento fisiologico, totemico, costituzionalmente codificato, alle armi da fuoco. Il dibattito è certamente riaperto anche se sembra evidente che con 330 milioni idi armi in mano alla cittadinanza non basterebbero norme sull’acquisto a modificare “l’anomalia” americana, in assenza di un ricambio generazionale e culturale disposto a ridiscutere il secondo emendamento – quello che elèva il porto d’armi a sacrosanto diritto costituzionale. Fino ad allora discorsi e corsivi servono solo a delineare i contorni di due Americhe profondamente dissociate: donne e minoranze urbane a favore delle riforme, contro i maschi bianchi prevalentemente di provincia, intransigenti e con in mano il grosso delle armi.

Questi ultimi comprendono una grossa fetta di supporter di Donald Trump che ha subito consolidato il proprio primato fra i candidati repubblicani (36%) invocando più forte degli altri una non meglio precisata «guerra totale» e la distribuzione di altre armi ai cittadini.