Che un libro, dopo un così bel titolo: Pavone e rampicante, abbia la signorilità di tener fede, in ogni pagina, a quel che ha promesso in principio è già una piccola meraviglia. Quante volte non capita, infatti, di dover ripetere per i titoli dei libri quel che si dice di certi esordi letterari e cioè che tutte le energie sembrano essersi perdute nell’abbrivio iniziale? Anche alcuni prodotti della nostra cinematografia fantastica dovevano dare quest’impressione, film come Gatti rossi in un labirinto di vetro o Quando Alice ruppe lo specchio celavano, sotto le belle apparenze, le fattezze miserevoli delle streghe nei racconti per i piccini. Non è questo il caso nell’ultimo lavoro di A. S. Byatt, ch’è opera incantevole come il nome che porta, appunto Pavone e rampicante Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris (Einaudi «Frontiere», pp. 184, € 32,00). Il rampicante è quello che s’abbarbica, in fragili germinazioni d’argento, sopra l’abito Eleonora, che Fortuny confezionò forse per la Duse intorno agli anni venti, il pavone, invece, s’alterna alla figura del drago, su uno sfondo di foglie verdi ideato da Morris.

Magione con tante finestre

Di questi due artisti la scrittrice ci dà come le vite parallele, vite appunto che fluirono opposte alle volte, a volte simili ma che non s’incrociarono mai. Fortuny d’altra parte trascorse i suoi giorni a Venezia nel quattrocentesco Palazzo Pesaro degli Orfei ch’egli aveva acquistato e restaurato, facendone la propria factory e il proprio laboratorio, mentre Morris visse a Upton nel Kent, dove s’era fatto edificare da Philip Webb una bizzarra magione con tante finestre quante sono le albe ne Lo cuntu de li cunti, prima di trasferirsi nel Gloucestershire in una villetta presa in locazione, Kelmscott Manor. Diverso era poi il loro mondo: Fortuny amava l’arte dei popoli nomadi, i tappeti, i drappi, le stoffe, le tende, che arrotolate e caricate sul dorso dei cammelli, portavano, attraverso i deserti, la vaghezza dei giardini, l’umbratile delizia delle oasi; Morris, invece, «guardava indietro al XIII secolo, come a un’epoca ideale per edifici e artigianato», la sua Red House era salda e massiccia, costruita in mattoni rossi, richiamava «alcuni elementi dei vecchi fienili e delle vecchie fattorie». L’uno, discendente di una aristocratica famiglia spagnola, si volgeva al vicino Oriente, a Cosroe II, che fece un giorno tramare un tappeto d’oro e di fiaba, ad Harun al-Rashid, il cupido califfo delle Mille e una notte; l’altro era gallese e vagheggiava un medioevo cheto e industrioso nella pace di armoniose consorterie. Eppure entrambi vollero riscrivere la produzione moderna d’oggetti di vita ordinaria nei quadri delle antiche maestranze artigiane e rendere unico e bello quel che rischiava d’intristirsi nell’anonimato della riproduzione meccanica. Furono artisti arcaicizzanti, l’uno come l’altro, intenti a trovare l’ispirazione nei bauli dei trisavoli, negli scavi archeologici, nelle scansie dei musei, facendo quasi l’inverso di quel che Chénier raccomandava ai poeti, forme nuove, cioè, su motivi antichi.

Descrivere due artisti tanto simili e tanto diversi ha in germe una semplicità alla quale la Byatt non cede. Avrebbe potuto darci una sticomitia, serrata come lo è la decorazione a marmi mischi delle chiese toscane: Pavone e Rampicante è, invece, un libro dalla scrittura mobilissima, nato, come tutta la buona saggistica, da un’occasione privata e da un moto soggettivo della fantasia: a Venezia, a Palazzo Fortuny. Scrive la Byatt: «Ho fatto molte scoperte durante la scrittura di questo saggio che è iniziata con il mio istintivo chiudere gli occhi nell’interno del buio palazzo di Fortuny, e su un mondo di vie d’acqua e di pietra, per poter vedere, con l’occhio interiore, il mondo verde e floreale di Kelmscott, vicino al suo umile fiume. Seguire questo contrasto apparentemente casuale ha generato ogni sorta di inaspettati accostamenti tra i due uomini e i due mondi, e una nuova sorprendente comprensione». Lasciando germogliare il suo saggio da un caso preclaro di memoria involontaria, la scrittrice ha come rarefatto la consueta struttura delle vite parallele in un libero moto d’andirivieni. Dalle acque di Venezia sembra aver rapito la scienza per la quale i rigidi prospetti dei palazzi si liquefanno nella fosforescenza dorata dei canali: la sua scrittura ha questa levità di visione. Ciò può vedersi in più luoghi, giacché la Byatt lascia spesso a nudo il movimento del pensiero; così parlando di Dearle, allievo di Morris, scrive: «A un esame attento il suo disegno rivela grande ordine e complessità, ma a prima vista sembra frutto di felice improvvisazione. La melagrana di Rossetti è mitica e personale ad un tempo. Quella di Morris, come la maggior parte delle sue opere, a un certo livello – il livello più importante – è la rappresentazione di una creatura vivente in crescita. Fortuny è diverso. Lui opera all’interno di un simbolismo condiviso e di un modo condiviso di associare le forme, con cui gioca, e che estende e cambia. Ora vedo che, in Fortuny, sono ovunque un linguaggio di motivi».

Saggistica vittoriana

L’ impasto di poetico e prosastico, che è il tono dominante del suo stile, fa pensare a modelli anglosassoni, e più precisamente a quel romanticismo, contenuto e smorzato, che distinse in maniera così tipica la saggistica vittoriana. Anche il gusto a procedere dall’elaborazione fantastica di un’impressione di lettura o di viaggio s’inscrive nella tradizione di Hazlitt e di Lamb, così come venne ripresa, alla fine del secolo XIX, in saggi misti di memorie e divagazioni estetiche del genere di Genius Loci della scrittrice inglese, naturalizzata fiorentina, Vernon Lee. Con quegli uomini la Byatt condivide il gusto della cultura e un certo placido andamento della prosa, riflesso di un mondo che trovava il tempo di viaggiare e di conversare. Può anzi dirsi che nel Pavone e rampicante le qualità della Byatt, doti appunto di cultura e sensibilità, risaltino ancor meglio che in altre sue prove dove possono apparire, talora, come diluite nel laborioso meccanismo narrativo. Qui i capitoli sono pochi e come giustapposti in un libero moto. L’autrice comincia col descrivere le case-laboratorio (la Red House, Kelmscott Manor, Palazzo Pesaro Orfei), evocando la vita appartata che i due artisti vi conducevano. Vi è poi un capitolo, Nord e Sud, sulle mitologie, norrena per Morris e cretese per Fortuny, alla quale le loro opere s’ispirarono sovente. Il terzo capitolo, forse il migliore, s’intitola: Tessuto, disegno e luce. A chiusura: una disamina dei motivi prediletti, melagrane, uccelli, pavoni e rampicanti, che consente inediti percorsi dall’opera dell’uno all’opera dell’altro.

Dal Paradiso dove certo li avrà condotti la loro vita alle somme piuttosto morigerata, i due artisti saranno soddisfatti del lavoro dell’autrice. C’è un fondo ridicolo o, se si preferisce, un’impertinenza un po’ troppo fantastica nel cingere una camera borghese del XIX secolo di una sorta di tessile aiuola, come voleva Morris, o nel farla assomigliare, secondo il gusto di Fortuny, alla tenda di un condottiero berbero. A distanza di un secolo si è sopraffatti dalla sofisticazione di questi interni. La Byatt, con la delicatezza del suo tocco e con la varietà delle sue suggestioni culturali, è riuscita a farcelo dimenticare. Evocati assieme alle case che ornarono e alle donne di cui cinsero i corpi, le stoffe di Morris e di Fortuny risorgono a quel pristino splendore che avvinse in così tenace incanto l’anima dei loro contemporanei.