Si riapre la stagione teatrale romana, con un paradosso, che può apparire lodevole o il suo contrario, a seconda della prospettiva. Mentre la città è percorsa (anche sui pochi bus circolanti) dalla campagna dell’Eliseo, che forte dei milioni di euro ottenuti in regalo dalla politica invita a sognare o a lasciarsi creare chissà quale «identità», il teatro pubblico della capitale occupa l’intera scena. Nel suo spazio dell’India ospita gli spettacoli più impegnativi della rassegna Short Theatre, a cominciare da quello inaugurale dei fracassoni spagnoli El conde de Torrefiel, Guerriglia (un deludente apologo fantapolitico con decine di figuranti, che per più di un’ora si dimenano come in discoteca, mentre il relativo martellone attenta allo stomaco delle prime file). Nella sala principale dell’Argentina presenta invece (in attesa di Sacha Waltz che la settimana prossima vi inaugurerà il festival di Romaeuropa) l’ambiziosa maratona (quasi sei ore, a partire dalle 19, oggi ultima replica) Ritratto di una nazione, sottotitolo L’Italia al lavoro.

Una programmazione all’apparenza di un centralismo quasi sovietico, che invece mostra piuttosto la composita debolezza della situazione, che rincorrendo tante identità, rischia di non costruirne una propria. Non è un peccato grave, certo innocente rispetto al segno di «discontinuità» che la giunta Raggi ha voluto dare alla propria programmazione culturale: sotto la gloriosa testata nicoliniana di Estate Romana, sono stati ridotti o azzerati i contributi alle realtà che pure hanno dato spinta fondamentale alla vita culturale romana (un nome per tutti, il fondamentale Le vie dei festival, alla sua 24° edizione), distribuendo piuttosto briciole a una miriade di gruppi rionali o paramatoriali, che ora se ne fregiano con orgoglio…

Il tema del lavoro dunque è al centro della scena dell’Argentina, perché vi sono dedicati i nove testi, commissionati ad altrettanti scrittori, uno per regione, che costituiscono la prima parte dell’operazione, destinata a completarsi nel prossimo anno. Ma come avrebbe ben spiegato Bertolt Brecht, non basta schierarsi per una giusta causa per ottenere risultati (teatrali e di persuasione) importanti e convincenti. La parte più debole sono proprio i testi, che per lo più echeggiano notizie di lotte, licenziamenti, legislazione e favore politico che un normale spettatore dell’Argentina apprende quotidianamente da giornali, tv, internet. Il linguaggio medio emula i media, lo spirito e la fantasia latitano, Anche se appaiono star di nome: da Michele Placido che rifà Di Vittorio a confronto con i raccoglitori stranieri di pomodori e un operaio Italsider, a Maddalena Crippa, elegantissima, che deve dare senso alla prosa impossibile di Elfriede Jelinek nel prologo. Così come l’esperienza di Francesca Mazza non rende la geometria perfida di Marta Cuscunà su Fincantieri, e Arianna Scommegna è costretta ad arrancare sui disastri della contaminazione dei militari chiusi nelle basi sarde: i paradossi di Michela Murgia sull’argomento non fanno neanche sorridere. L’effetto rischia a momenti di essere perfino controproducente. E Ulderico Pesce applica alla vicenda Eni in Val d’Agri, lo schema ben noto di altre sue narrazioni lucane, come la Fiat a Melfi.

Due soli momenti si fanno apprezzare senza riserve, in quell’andirivieni all’apparenza casuale di enormi torri lavorative. Uno è quello di Wu Ming sulla vertenza della General Electric: con ironia e tenerezza riesce a resuscitare anche Yuri Gagarin dallo spazio, e Musella, Mazzarelli e Nigro fanno davvero ridere acido. L’altro momento è il ritorno dopo dieci anni di Davide Enia, bravo autore e fantastico narratore di uno specialista nel ripescaggio di naufraghi e cadaveri a Lampedusa, avvincente e commovente. La regia di Fabrizio Arcuri (che è anche direttore di Short Theatre) ordina il traffico nel mega dj set con tanto di band dal vivo, evitando con fatica le secche.