Non si ferma la campagna di epurazione iniziata tre anni fa in Arabia saudita. La Commissione nazionale anti-corruzione ha annunciato l’arresto di 207 impiegati di diversi ministeri, senza fornirne i nomi.

Altri 460 cittadini sauditi sono stati messi sotto inchiesta per corruzione, abuso d’ufficio e frode. Anche in questo caso si tratta di dipendenti ministeriali (tra i dicasteri più importanti, interni, difesa e giustizia) e membri della guardia nazionale. Appena tre mesi fa, ad aprile, a finire in prigione per accuse simili erano stati altri 176 impiegati governativi.

L’ondata di epurazioni iniziata alla fine del 2017 era stata lanciata dal principe ereditario (e reggente de facto) Mohammed bin Salman. Aveva bisogno di consolidare la sua autorità nel paese, in particolare all’interno della famiglia reale.

Per questo a finire per mesi agli arresti in carcere o ai domiciliari nel famoso hotel Ritz-Carlton di Riyadh furono 400 tra principi, imprenditori, ex ministri, tutte personalità colonna portante dell’élite saudita e della famiglia Al Saud. Tra loro il principe Alwaleed Bin Talal e il magnate delle costruzioni Bakr bin Laden. Una vera e propria retata ai vertici del regno, senza precedenti nella sua storia.

All’epoca i detenuti denunciarono violenze fisiche, pestaggi e torture psicologiche (tra cui le costanti minacce di rivelare in pubblico segreti personali), mentre i loro asset venivano confiscati dal governo, che riuscì così a raccogliere 107 miliardi di dollari. Un’operazione che ha pagato a metà: se bin Salman ha consolidato il suo potere politico, ha anche raffreddato i rapporti tra élite politica ed élite economica.