Nel 1948 il Palladium è una vecchia sala da ballo ormai in declino al secondo piano di un’anonima palazzina di Broadway. Fu allora che Lou Walters e Federico Pagani decisero di sfidare la politica di segregazione razziale in voga a quei tempi, dichiarando il proprio locale «aperto«. Nonostante a muoverli non fosse certo alcuna crisi di coscienza, la scelta dei due impresari passerà alla Storia. Senza saperlo stavano aprendo le porte a un nuovo genere musicale che, nei decenni successivi, avrebbe conquistato il mondo. L’idea di scritturare musicisti provenienti dai sobborghi ispanici di Harlem, si rivelò presto vincente.

Orde di portoricani, venezuelani, cubani, dominicani e panamensi incominciarono a scendere al Downtown di Manhattan per intrattenere un pubblico di classe media, guadagnandosi per la prima volta un’inedita stima. In città non si parlava d’altro. Sul piccolo scenario del popolare locale iniziarono a esibirsi Machito y sus Afrocubans, Tito Puente e i Picadilly Boys, Tito Rodríguez e tanti altri. Al ritmo di chachacha, rumba, bolero e mambo questi musicisti, innamorati della musica cubana, si accingevano a cambiare per sempre la storia della musica contemporanea. L’otre dei venti era stata aperta. Stava nascendo la salsa.

La salsa è il fenomeno culturale e musicale che ha regalato ai Caraibi un luogo speciale nella storia della musica popolare del XX secolo. Nata a New York al margine della musica cubana, la salsa è il simbolo di un’identità condivisa. Una storia fatta di abbandoni, amori infranti, precarietà, immigrazione. Esattamente come il tango, fado, rebetiko, flamenco e morna, i suoi testi raccontano la storia di un’umanità alla deriva, ai margini del Nuovo Mondo, vittima di quell’American dream convertito, per molti, in incubo. Un’epica della devianza senza quell’insopportabile estetica della povertà tipica della curiosità pruriginosa delle classi più abbienti. La salsa, almeno, alle sue origini, è ancora un’effimera evasione da una dura quotidianità, la voce della strada di un East Harlem in cui circa 100 mila ispanici vivevano relegati in una sorta di pentola a pressione in attesa di scoppiare. Da non confondere con cumbia, reggaeeton, merengue, la salsa originaria ha in realtà ben poco a che vedere con lo stereotipo «latino» che ha trionfato internazionalmente.

È la musica cubana, una sintesi straordinaria di elementi africani, caraibici con il jazz latino e brasiliano. Il termine, utilizzato per la prima volta nella Grande Mela negli anni ’20 da Ignacio Piñeiro in Échale salsita, divenne celebre negli anni ’60 per definire una musica che in realtà è sempre esistita e che negli anni ’30 era già una moda a New York grazie ai mitici Antonio Machín, Mario Bauzá, Julio Cueva e l’orchestra Azpiazu. Fino al 1959, durante l’epoca del dittatore Batista, Cuba era un vero paradiso per il turista.

L’Avana era meta obbligatoria di un’industria del divertimento che si serviva della musica cubana come di prodotto esotico da vendere al miglior offerente. Una sorta di pantomima for export che si nutriva del folklore, imitandone i modi e gli stili, per convertirlo in glamour privato di ogni valore nutritivo. Ma l’idillio fu breve. Quando nel 1961 Castro dichiara la sua Rivoluzione «comunista», improvvisamente Cuba si converte nel nemico giurato numero uno del blocco Occidentale. La crisi dei missili, l’invasione fallita della Baia dei Porci, l’assassinio di Kennedy, la Guerra Fredda e l’embargo impongono un nuovo corso alla Storia. È un’epoca che sta cambiando.

La marcia su Washington per i diritti civili, il pacifismo, la guerra del Vietnam, l’emergere della controcultura, hippies e beatniks, Martin Luther King e Malcolm X, i Beatles, giunti in America nel 1964 per mostrare come il rock nero degli anni ’50 potesse essere più moderno, attraente e pieno di sex appeal. Fu così che le grandi orchestre degli anni ‘50 incominciano a cadere in disgrazia e la passione per la musica cubana sostituita con la più docile bossanova brasiliana. Se dal 1963 l’industria statunitense inizia a osteggiare tutto ciò che proviene da Cuba, nell’isola caraibica la salsa non se la passava meglio di certo. Meta prediletta di intellettuali impegnati, simbolo di Rivoluzione permanente, il mondo della Cultura non smette di raggiungere L’Avana per tesserne le lodi.

E così il paese che aveva dato i natali al son, alla rumba, al mambo e al chachacha si converte in baluardo di oltranzismo ai danni di tutte quelle attività giudicate non direttamente vincolate allo spirito rivoluzionario. La musica popolare scompare per lasciare il posto alla canzone impegnata, «di protesta». Come ricorda il celebre scrittore cubano Leonardo Padura si scopre così la musica andina, con i suoi flauti, bombos, charangos e quenas. Tutto doveva suonare a «latinoamericano», a «patria grande» a lotta contro il neocolonialismo statunitense. La salsa in particolare viene accusata di corrompere i giovani, di essere un prodotto del capitalismo yanqui che, approfittando dell’embargo, strumentalizza la tradizione per snaturarla. Il mondo ha bisogno di combattenti che sappiano utilizzare il fucile per difendere la Rivoluzione. Il fatto poi che la salsa sia nata a New York, presso la comunità ispanica, per poi invadere i Caraibi, fa assimilare automaticamente i suoi protagonisti alla dissidenza. Celia Cruz sarà la regina dell’esilio, di quei «gusanos» così come la retorica ufficiale inizierà a chiamare i cubani residenti fuori patria.

Nonostante le oggettive avversità, la salsa continuerà a trovare la sua linfa vitale presso un vasto pubblico. A partire dagli anni ’70 occuperà un luogo sempre più importante della scena musicale e culturale di Porto Rico, Venezuela, Repubblica Dominicana, Panama e Colombia. La salsa raggiunge il suo apice a New York, «il quartiere più settentrionale dei Caraibi» come si diceva, incontrando il latin jazz ma anche la curiosità di giovani latinos cresciuti ascoltando rock e consumando prodotti di un’industria culturale onnivora che fagocita tutto. Sarà la casa discografica Fania Records, fondata nel 1964, ad assumere le redini di un movimento che si candidava a conquistare il mondo. Il boom della salsa nasce il 26 agosto 1971 nel Cheetah (un vecchio magazzino di Manhattan tra la 53ª strada e Broadway convertito in discoteca) con un concerto dell’orchestra Estrellas de Fania diretta da Johnny Pacheco.

Due anni dopo, nel 1973, l’orchestra torna a esibirsi nel Yankee Stadium, in quello che sarebbe dovuto diventare il concerto di salsa più grande di sempre. Ma l’entusiasmo dei 40 mila spettatori gioca un brutto scherzo all’organizzazione e la kermesse finisce ancor prima di iniziare per motivi di ordine pubblico. Nonostante tutto, la Fania riesce a salvare alcuni filmati della serata. Quanto basta per produrre Salsa, il film che avrebbe dovuto lanciare la salsa nel mondo. La pellicola è in realtà un’operazione puramente commerciale finalizzata a edulcorarne l’immagine. Ci si dimentica dei sobborghi, delle minoranze etniche, della conflittualità sociale dei quartieri più poveri di New York, per costruire una storia gratificante, in linea con i dettami dell’industria hollywoodiana. Ci si mette dentro di tutto, da Groucho Marx ad Al Jolson, passando per Dolores del Rio fino a Carmen Miranda con l’immancabile casco di banane.

Digerita e neutralizzata, la salsa diventa glamour. Ci si dimentica perfino dei Caraibi, preferendogli una non meglio specificata selva africana, tra indigeni, riti vudu e suoni di esotici tamburi. Nel 1973 la storica orchestra Estrellas de Fania si converte così in Fania All Stars per conquistare il mondo. L’obiettivo è convertirla nella banda latina con maggior influenza internazionale, cavalcando l’onda della «latin music». Ad ogni modo, come ricorda il critico musicale César Miguel Rondón nel suo imprescindibile El libro de la salsa: Crónica de la música del Caribe urbano, le cose non vanno come si sperava.

Gli impiegati della Fania sono dei dilettanti, sopravvalutano il mercato, i loro dischi hanno una qualità non sempre adeguata e le tournée, organizzate in luoghi improbabili come Africa e Giappone, non danno i risultati desiderati. In realtà neppure Stati uniti ed Europa si lasciano sedurre troppo. Saranno invece i paesi caraibici il loro principale mercato di riferimento.
In cerca di più facili guadagni, sul finire degli anni ’70, i cantanti incominciano così ad abbandonare le storiche orchestre mettendosi in proprio. Ismael Miranda fu il primo, seguito da Hector Lavoe, Ismael Rivera, Cheo Feliciano, Johnny Pacheco, Oscar D’León fino ad arrivare a Celia Cruz, convertita in regina internazionale della salsa.

Nel frattempo anche la componente musicale si perfeziona con l’intervento di artisti come Ray Barretto, Eddie Palmieri, Tito Puente, Andy Montañez e il Combo di Porto Rico, fino ad arrivare a Willie Colón e Ruben Blades, autori di Siembra (1979), il disco più venduto della storia della musica caraibica. Un eccellente compromesso tra avanguardia e tradizione che consacra la salsa come un genere capace di affrontare i grandi temi dell’umanità in forma critica e responsabile. Droga, reggaeton, cumbia, merengue, bachata, balli di gruppo, standards latini hanno dato oggi un duro colpo alla salsa. Quella vera.

Se da un lato ne hanno sancito il definitivo trionfo commerciale su scala planetaria, dall’altro ne hanno completamente snaturato lo spirito originario di musica popolare. La salsa erotica attuale poi, con i suoi stilemi così tipici di una visione del mondo semplificata, spesso e volentieri maschilista e violenta, si è convertita in una caricatura di se stessa, vittima del mercato dei videoclip e di una cultura pop effimera e perfettamente prescindibile. Ieri Porto Rico, Caracas e New York, oggi Bogotá e Cali sono le nuove capitali internazionali di una musica urbana al giro di boa, al rischio di estinzione.