Il vero oggetto del contendere dell’intero summit Apec, avrà uno studio di fattibilità che durerà due anni. Si tratta del Free Trade Area of the Asia-Pacific (Ftaap), proposto dalla Cina, accolto con poco entusiasmo nei mesi precedenti, osteggiato dagli Stati uniti, che hanno invece in ballo un altro trattato di libero commercio (il Tpp), che esclude Russia e Cina. E invece, dopo la determinazione con cui Xi Jinping ha tratteggiato il futuro della regione, tutti i paesi asiatici si sono dati disponibili ad andare avanti. Una vittoria clamorosa, inaspettata, da parte di Pechino che segna un punto decisivo nei prossimi equilibri della regione e non solo.

La strategia di Obama riguardo l’Asia – dunque – ora è a rischio per davvero. Ci si chiede se questo è accaduto per questioni internazionali o perché – come suggeriscono i media statunitensi – il presidente ha di fatto smembrato quel team di esperti che aveva puntato la sua politica estera, proprio sul continente asiatico. É lecito credere che entrambi i motivi abbiano la loro rilevanza. Al vertice Apec a Pechino il presidente Usa ha giocato fuori casa, in modo totale. In primo luogo è arrivato nella capitale cinese fresco della sconfitta elettorale midterm. Ha subito un’accoglienza indubbiamente «fredda» da parte di tutti, compresi quei leader asiatici che per molto tempo hanno visto in Washington il principale alleato, per arginare la Cina e che ora invece rimangono soggiogati, affascinati dalla sicurezza con cui il leader cinese Xi Jinping, tratteggia il futuro dell’area.

Prosperità, infrastrutture, economia, crescita. Poco importa, per questi paesi, se dovranno avere a che fare con la tracotanza di Pechino: ci sono abituati, è una tara storica, per certi versi ofuscata solo dal «secolo dell’umiliazione cinese», una parentesi breve nella storia millenaria del Paese. E Obama, anche simbolicamente, è apparso il tipico invitato ad una festa, dove è obbligatorio averlo tra i piedi, seppure non gradito.

La simbologia in Cina è particolarmente importante e vedere Obama, là in fondo, a sinistra o a destra, in ogni foto, in ogni occasione, con tanto di drappi con i colori della Russia a segnare l’importanza di Putin, è stato quasi umiliante. Ma Obama incassa per lo più sconfitte, dalle parti di Pechino, in occasione del vertice asiatico-pacifico. Non è un caso se l’intervento di Obama ha battuto sui tasti consueti: informazione, diritti umani, ben sapendo che – presumibilmente – di quanto detto non sarebbe mai arrivato niente al grande pubblico cinese. Secondo l’agenzia Xinhua e la televisione nazionale cinese, ieri Xi Jinping e Obama avrebbero avuto un incontro informale, ma non sono stati rilasciati particolari. E come sottolineato dalla stampa americana, Obama paga anche alcune sostituzioni nel suo team. Al posto di Timothy Geithner, il precedente segretario al Tesoro che parla mandarino e aveva i contatti giusti, forse, all’interno del Politburo cinese, c’è ora Jacob Lew, poco esperto di Cina e più esperto di questioni di budget. Al posto di Hillary Clinton, fautrice dell’attenzione Usa verso l’Asia, c’è John Kerry, che pare più a suo agio, si fa per dire, in Medio Oriente.

Sono cambiati anche i vertici Usa in Cina. L’attuale ambasciatore Usa a Pechino, Max Sieben Baucus, ha ammesso di non essere «un vero esperto di Cina». Si trata di una situazione che, come riportato da Bloomberg, «fotografa la passività dell’America rispetto ai proclami di qualche anno fa. Gli Stati uniti, sostengono ex funzionari americani, stanno pagando una sorta di passività, di cui la Cina ha saputo approfittare.

«L’amministrazione nei primi anni è stata molto concentrata sui cinesi, e ora sembriamo completamente assenti», ha detto a Bloomberg Jon Huntsman, ambasciatore Usa in Cina fino al 2011. «Credo che il presidente abbia stabilito che non c’è alcun vantaggio politico nel gestire il rapporto al di là dello status quo».