Per simpatia nei confronti del lettore tralascerò l’ennesima esposizione della crisi della critica, delle sue ragioni estrinseche (la trasformazione della società: ognuno scelga qui la sua prediletta tra le Grandi Descrizioni correnti) e delle sue motivazioni intrinseche (ovvero lo sciogliersi del nesso contingente che verso la fine del Settecento si è creato tra un dato radicalmente antropologico, il fatto cioè che la specie umana ha tra le sue doti adattive la facoltà di giudizio, e una pratica storico-sociale investita di un valore politico e istituzionale: dalle Accademie alle Università, con tanto di sigillo statale). Di queste esposizioni se ne contano a centinaia, a far data almeno dall’inizio del Novecento, sono tutte più o meno simili (lo dico con l’esperienza di chi vi ha contribuito), e in epoca di web facilmente a disposizione di chiunque intendesse.

Quello che vorrei qui tentare è una disamina sentimentale di cosa andrebbe perso laddove la crisi si rivelasse una buona volta tale, e cioè definitiva: quali parti del nostro essere sensibile ne risulterebbero affette, colpite, sminuite; e quali cattivi surrogati potrebbero cercare (in realtà già lo stanno facendo) di insediarsi al posto di quel vuoto.
In primo luogo, dunque, la critica (con critica intenderò d’ora in poi per brevità sia la pratica comunemente chiamata così, sia lo spirito critico che l’ha resa possibile; e sarà anche sottinteso: una buona critica, una critica riuscita) è profondamente egualitaria; e l’eguaglianza, come sanno bene i bambini, è un sentimento prima che un ragionamento.

Mettere in comune
Fin dalle sue radici: la facoltà di giudizio presuppone a tal punto una comunità di uguali che di fatto la genera. Non solo perché chiunque può accogliere o rifiutare una critica, o contrapporgliene un’altra, ma perché è implicito in ogni atto critico un «vedi?», «hai visto?», «hai fatto caso a questo o a quello?» che mette automaticamente l’interlocutore nella disponibilità di dire non soltanto sì o no, ma anche di arricchire, completare, riutilizzare il contenuto dell’atto critico ricevuto per forgiarne uno proprio. Senza intenzione esplicita: accade, puntualmente. Per sua essenza, la critica mette in comune ciò che ha; non soltanto, e non in primo luogo, il contenuto di ciò che sa, ma il fatto stesso di poter accedere al diritto di compiere lo stesso gesto. Dato un critico, ce ne sarà immancabilmente un altro nel momento stesso in cui lo si legge o lo si ascolta.

La critica trasmette, prima ancora che sensazioni o pensieri, l’esemplificazione dell’uso di una facoltà; potenzialmente, asintoticamente, a tutti, dato che a tutti appartiene in potenza la facoltà di giudizio. E non è un caso, allora, che la critica moderna sia comparsa al tempo dell’irruzione delle masse sulla scena politica, e rappresenti, a dirla in grosso, un sinonimo del termine democrazia; onde la crisi dell’una è inevitabile quando l’altra sia in crisi. All’ovvia e per certi versi giusta obiezione che la critica è sempre stata una attività elitaria si può serenamente rispondere che ciò è accaduto solo nella misura in cui questa sua spinta intrinseca veniva contrastata dall’attrito con i rapporti di forza di volta in volta vigenti, dalla proibizione autoritaria alla neutralizzazione mercantile. L’ideale regolativo di un critico dovrebbe essere che anche tutti gli altri lo diventino, e dunque l’esercizio di una professione separata non abbia più ragione di esistere.
In secondo luogo, la critica è contagiosa. Genera imitazione, mette in moto il desiderio di riverificare a propria volta il giudizio. Chi è esposto all’atto critico è sempre nelle condizioni di dire: anche io lo so fare, anche io lo voglio fare, ora che ho visto come si fa. Se la critica ha saputo tirare fuori tante cose da quel testo, da quell’opera, da quell’autore, significa che è un’attività non soltanto istruttiva ma piacevole. Un’attività è qualcosa che non si può delegare, non esiste se non la si esercita in proprio. L’occhio si addestra, la mano si affina, le occasioni si moltiplicano. La critica mostra quanto possa essere eccitante fare da sé, smontare e rimontare, provare e riprovare, dissuadere e persuadere.
D’accordo, però…

La miglior risposta che un critico possa ricevere non è tanto «sono d’accordo», quanto un «sì, però…». Lo stesso oggetto si rifrange in molte menti, che in quell’oggetto escono dall’isolamento senza rischiare alcun intruppamento gregario. Tu dici questo? Vediamo. All’obiezione che questa attività richieda agio, tempo libero, e sia stata perciò in genere limitata a una casta di privilegiati (come ammetteva Platone), si deve rispondere che giustappunto per questo la critica si è alleata con le forze che tendevano a promuovere la liberazione dalla schiavitù della necessità, e che non a caso Marx la includeva utopicamente nell’Ideologia tedesca tra le pratiche cui liberamente dedicarsi al pomeriggio dopo aver passato la mattina a pescare.

Infine, la critica, nonostante le arcigne armoniche disseminate nel termine dai suoi nemici per avvelenarne il pozzo (sei troppo critico! sempre lì a criticare!), produce allegria. Un’allegria particolare, certo, cui non è estraneo anche un qualche piacere della distruzione di ciò che falso, malfatto, mistificatorio. L’allegria di chi si scioglie dai vincoli, di chi sente, esercitandola, un accrescimento della propria potenza. Non è intuitivo, lo ammetto, per chi ha in mente il luogo comune dello studioso ingobbito sulle sue scartoffie; ma è vero; e oltre che tra i critici migliori possiamo trovarne testimonianza nella beatitudo di Spinoza, nel plaisir di Diderot, nel baccano degli spiriti liberi di Nietzsche. Si tratta di una potenza che proviene dal comune, e che al comune ritorna, comunicandosi, aumentata.

Ma a tutto questo, dice la crisi, pare si debba rinunciare. Vediamo allora cosa lo sostituisce. Cosa aspira a prendere il posto dell’eguaglianza? La facoltà che della critica è sempre stato il rovescio radicale, ovvero il carisma, l’autorità, l’ipse dixit, la parola senza risposta ma con migliaia di rilanci, il desiderio di essere guidati, governati, influenzati, di farsi dire non solo cosa fare o pensare, ma persino cosa sentire. Se il motto della critica è «adesso fatelo voi, e quindi fatelo diverso», il motto del carisma è «fate come me». Meno faticoso, sicuramente; e d’altra parte non è evidente che non siamo tutti uguali e che è giusto che alcuni abbiano più (ricchezza, potere, influenza) degli altri?

All’intrinseco contagio della critica subentra dunque il mimetismo conformistico che mi fa comportare come colui che non posso essere, proprio perché non posso esserlo. Il che, come è ovvio, genera, al posto dell’allegria, risentimento, che non a caso è oggi il principale collante politico e sociale, ciò che ci tiene insieme attraverso quello che ci divide, la massima mediazione nell’epoca della disintermediazione.

Fin qui e non oltre, credo, può arrivare una disamina sentimentale della crisi della critica al netto di ogni considerazione storica, politica, economica e sociale. Inevitabilmente astratta, dunque, e dall’astratto non sono mai venute soluzioni, il che esime almeno dal doversi pronunciare sullo stantio dilemma tra ottimismo (là dove più cresce il pericolo cresce anche ciò che salva: chissà poi perché) e pessimismo (è proprio finita, ma sentite come lo dico bene).

Nessun pronostico
In conclusione, dunque, nessun auspicio o pronostico, ma solo una domanda: se la critica è stata una forma storica della nostra facoltà specie-specifica di generare allegria, potenza e condivisione attraverso il lavoro del negativo (se fossimo tutti d’accordo cosa avremmo da dirci?), quanto a lungo l’animale umano potrà tollerare che il negativo spadroneggi sotto le spoglie dell’impossibile e per fortuna sempre frustrato desiderio di unanimità? Quanto ancora difenderemo la produzione di infelicità? Se mai il corso dovesse invertirsi, ho molti dubbi che tornerebbe in auge la critica così come l’abbiamo conosciuta. Ma le prestazioni che garantiva, quelle sì.