Le ostentazioni di sicurezza e l’arroganza sono strumenti di pura propaganda a uso dei senatori incerti: dovrebbero servire a trovare quei numeri che, a palazzo Madama, Matteo Renzi al momento proprio non ha. In politica tutto può cambiare da un momento all’altro, in quella italiana anche più che altrove, ma per garantire il varo della riforma istituzionale ci vorrebbe una resa pressoché incondizionata della trentina circa di dissidenti del Pd. Non se ne vede traccia e che ne arretri più della metà è poco probabile.

Sul fronte Ncd il quadro è altrettanto desolato. Certo, gli affondi di Gaetano Quagliariello vanno presi con le pinze e sono gli stessi insoddisfatti del gruppo di testa alfaniano a far sapere sottovoce che quanto vanno strillando non va preso troppo sul serio: alla fine la riforma la voteranno. Però quando Roberto Formigoni ripete che Renzi farebbe bene a «convincersi che i numeri del Senato non sono dalla sua» e che «rischia di andare sotto a voto segreto già sull’art. 1 della riforma» non parla per sentito dire. I voti in uscita dal partito in via di disgregazione di Alfano sono al momento sei, potrebbero lievitare sino ad otto. Pochi? Per Renzi, senza una rotta della dissidenza Pd, tanto varrebbe che fossero 80.

La sola carta che il governo può giocare per non affrontare il voto del Senato con lo spirito della roulette russa è un accordo sotto banco con Silvio Berlusconi: un Nazareno inconfessato ma rigido che riporti per un momento indietro il calendario, ai bei tempi in cui gli azzurri uscivano dall’aula ogni volta che bisognava salvare l’allora socio. Non è un caso se all’improvviso tutti i diretti interessati, dalla Boschi domenica al sottosegretario Pizzetti ieri, ripetono che bisogna tornare a dialogare e persino a «condividere le scelte» con Arcore.

Qualche senatore azzurro tentato dal correre comunque in soccorso del governo c’è. Però sono pochini: nell’ultima riunione del gruppo non un solo intervento ha sostenuto la necessità di appoggiare le riforme. I dubbiosi sarebbero sei secondo i superottimisi, tre secondo i cauti ma tra i falchi forzisti c’è persino chi giura che uno solo medita davvero di veleggiare verso la banda Verdini. In compenso c’è il rischio che sul composito fronte destro un paio di ulteriori voti il governo li perda: le tre leghiste passate al gruppo misto e considerate in forza alla maggioranza sarebbero in procinto di rifare i bagagli per approdare al gruppo di Fitto, che a votare le riforme non ci pensa proprio. Dunque quel che servirebbe non sarebbe qualche diserzione azzurra limitata e in ordine sparso ma un preciso ordine di scuderia del capo: guardatevi intorno, fate i conti e decidete di conseguenza quanti devono correre a prendere il caffè al momento opportuno.

Per ora Berlusconi quell’ordine non ha intenzione di darlo. Potrebbe cambiare idea sino all’ultimo minuto. Ma per andare sul sicuro bisognerebbe dargli la revisione dell’Italicum col ritorno al premio di coalizione, e per Renzi non sarebbe certo un affare. Peraltro se anche, come è pur sempre probabile, alla fine la riforma venisse approvata in virtù delle uscite strategiche, i sospiri di sollievo a palazzo Chigi sarebbero limitati. Alla prossima lettura serviranno a norma di art. 138 della Costituzione 161 voti, senza uscite o soccorsi mascherati di sorta. Per questo tra gli strateghi del fiorentino non è esclusa l’ipotesi di incamerare il voto sulla riforma, scommettere sulla ripresina e soprattutto incrementare il consenso con l’intervento defiscalizzante sulla prima casa, per poi tornare al voto cercando di ripetere l’exploit conquistato alle europee con gli 80 euro. Ma per impostare questa strategia è vitale passare, sia pure nella maniera più accidentata, il voto di ottobre sulle riforme.