Catturare l’anidride carbonica prodotta come scarto dei processi di combustione e farla sparire a 3 mila metri sotto terra, impedire che entri in circolazione nell’atmosfera, stiparla nei giacimenti offshore di metano esauriti. Un tassello verso la decarbonizzazione che Eni, il gigante dell’energia controllato dallo Stato italiano attraverso il Ministero del Tesoro e Cassa depositi e prestiti, considera strategico. La politica ha già dato il via libera a tutti i livelli. Il Presidente del consiglio Conte ha annunciato a giugno la nascita a Ravenna del più grande centro di stoccaggio di CO2 al mondo. Mentre la Regione Emilia-Romagna ha promosso l’idea come un esempio di «economia circolare, sviluppo e innovazione».

MA NON TUTTI SONO CONVINTI, ANZI. Ci sono gli ambientalisti, che vedono i progetti di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (l’acronimo è Ccs: Carbon capture and storage) come un’ottima scusa da parte delle compagnie petrolifere per rimandare il passaggio alle energie rinnovabili. E c’è chi, nel mondo scientifico, solleva interrogativi anche sul piano della sicurezza. Il progetto stoccaggio della CO2, ha spiegato Eni, guarda prima di tutto agli obiettivi aziendali che puntano alla riduzione delle emissioni nette dell’azienda. L’area di Ravenna, con i suoi giacimenti offshore esauriti o in fase di esaurimento, offrirebbe una «combinazione unica di fattori». A Ravenna esiste da decenni un’importante industria chimica ed estrattiva, e nella zona il marchio del cane a sei zampe è presente dal 1952, da quando cioè fu scoperto il gas metano. Le stesse piattaforme offshore che i turisti della Riviera possono vedere in lontananza mentre prendono il sole sono la testimonianza di un distretto industriale destinato in futuro a spegnersi a causa dell’esaurimento dei depositi. Perché non riutilizzare quelle infrastrutture all’interno di un progetto capace di convogliare l’anidride carbonica prodotta dagli impianti inquinanti della terra ferma direttamente nei giacimenti offshore ormai vuoti? Questo, in estrema sintesi, è il pensiero di Eni. L’azienda ha dichiarato una capacità di stoccaggio stimata tra le 300 e le 500 milioni di tonnellate e ha fissato al 2025 l’inizio delle attività di pompaggio.

A NON ESSERE CONTENTI SONO GLI AMBIENTALISTI. Greenpeace, che vede l’annuncio di Ravenna come l’esempio degli escamotage che sempre più aziende utilizzeranno per continuare a inquinare. «Bisogna tagliare le emissioni, non catturare l’anidride carbonica a posteriori», sintetizza Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima e energia della ong. «Noi sappiamo che per i prossimi sei anni Eni aumenterà la sua produzione di idrocarburi (petrolio e gas) del 3,5% all’anno», aggiunge Iacoboni. «Questa è una strategia assolutamente incompatibile con qualsiasi tentativo di rispettare gli accordi di Parigi». Rincara la dose Legambiente Emilia-Romagna: «Non bisogna farsi abbindolare da questi miracolosi progetti di cattura della CO2».

SUL TEMA MOLTI SCIENZIATI SONO CRITICI. Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna e coordinatore del gruppo Energia per l’Italia, ha parlato del processo di cattura dell’anidride carbonica come di un procedimento che, «oltre ad essere poco logico, poiché si versano in atmosfera quantità sempre maggiori di CO2 per poi ricatturarle e sequestrarle, è complesso dal punto di vista ambientale, molto costoso, e richiede un forte sviluppo perché è ancora a livello di ricerca». Infine ci sono le considerazioni legate alla sicurezza. «Lo stoccaggio nel sottosuolo – ha detto – è rischioso perché non sono noti i suoi effetti sismici. Tanto più in una zona fragile come la costa di Ravenna, dove sono in corso significativi fenomeni di subsidenza».

Non è tutto. «Avere in mano giacimenti esauriti per 500 milioni di tonnellate come quello di Ravenna può sembrare un’opportunità importante – ragiona Stefano Caserini, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano e coordinatore del blog climalteranti.it – ma stiamo in realtà parlando di una grandezza piccola rispetto alle emissioni mondiali, mentre per l’Italia il quantitativo sarebbe interessante», pari ogni anno a 35 gigatonnellate (miliardi di tonnellate). Per Caserini i progetti di cattura della CO2 possono essere utili, ma solo se visti come accompagnamento ad una «drastica spinta verso l’efficienza energetica e le rinnovabili». Ma siccome non basterà lo stesso, perché «quando andremo a emissioni zero ci sarà in ogni caso troppa CO2 nell’atmosfera per centrare gli accordi di Parigi e limitare l’innalzamento delle temperature ben sotto i 2 gradi», allora lo stoccaggio geologico potrebbe restare «una delle opzioni da considerare in particolare per certi settori industriali, ad esempio quello del cemento, dove le rinnovabili non sono ancora un’alternativa».

C’E’ PERO’ CHI SALUTA POSITIVAMENTE L’ANNUNCIO di Eni e del governo. Stefano Stendardo è il referente scientifico sul tema Ccs per l’Enea, l’ente pubblico che si occupa di ricerca su ambiente, energia e nuove tecnologie. Da anni Stendardo studia le tecnologie per catturare e riutilizzare la CO2, ad esempio creando combustibili rinnovabili o aggregati sintetici da utilizzare nell’industria edilizia. Secondo il ricercatore, «le energie rinnovabili e le tecnologie Ccs in futuro si potranno integrare sempre più». L’annuncio di Eni sarebbe allora un passo avanti, e il passo successivo «sarà il riutilizzo della CO2». Se da una parte abbiamo la cattura di CO2, e dall’altra le rinnovabili capaci di produrre idrogeno, «in futuro potrebbe nascere una nuova industria». Ad esempio «combinando l’idrogeno verde (cioè prodotto a partire da fonti 100% rinnovabili come l’eolico, ndr) con la CO2 catturata. L’obiettivo può essere la produzione di combustibili sintetici, rinnovabili e non più fossili».

SU QUESTO VERSANTE PER ORA PERO’ ENI non ha annunciato nulla. Allo studio ci sono future «possibili ipotesi di sviluppo» di una filiera basata sul riutilizzo della CO2 – molto dipenderà dalle sovvenzioni e dai bandi europei a cui Eni ha già annunciato di voler partecipare – ma su Ravenna l’azienda prevede solo la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Eppure basterebbe poco per colmare il gap, considerando che proprio al largo di Ravenna Sapiem ha pochi giorni fa annunciato di voler creare un parco eolico con la possibilità di produrre idrogeno green.

MA PROPRIO SULL’EOLICO OFFSHORE, VIA OBBLIGATA secondo molti esperti per dare un senso compiuto alla cattura di CO2, la Regione di Stefano Bonaccini frena decisamente, forse per non disturbare la potentissima industria locale del turismo che considera le pale un mortale disturbo visivo. A luglio su questo tema è scoppiata una feroce polemica attorno alla creazione di secondo parco eolico, questa volta al largo di Rimini e Cattolica. L’assessore regionale alle infrastrutture e al turismo, Andrea Corsini, eletto a Ravenna in quota Partito Democratico, ha detto di essere contrario a «stravolgere il paesaggio dell’Adriatico in maniera irreversibile» e parlato di tecnologie che nel nord Europa sono già «superate». Quando invece l’eolico è definito «innovativo» nel Piano nazionale per l’energia e il clima. Anche Bonaccini ha detto no. «Se lei pretende di conoscere l’Emilia-Romagna più di quanto la conosca io ho impressione che si vada poco lontano», ha risposto su twitter alla parlamentare di Leu ed ex presidente nazionale di Legambiente Rossella Muroni. «Rompere l’infinito di uno spazio aperto come il mare ha un costo molto alto. Vogliamo l’impatto visivo zero», ha aggiunto Andrea Gnassi, sindaco di Rimini dove, non a caso, si voterà il prossimo maggio. Prese di posizione che hanno fatto infuriare il movimento Fridays for Future e provocato malumori nell’ala rosso-verde della maggioranza a guida Pd che alle scorse regionali ha incassato voti anche per dare una vera svolta green all’Emilia-Romagna, e che ora vuole una seria discussione sul tema.