La confusione regna sovrana in Libia a quattro mesi dalla data fissata per le elezioni parlamentari e presidenziali. Il Governo di unità nazionale libico (Gnu) – l’esecutivo a interim nato a marzo con il sostegno della comunità internazionale – è ancora in attesa dell’approvazione della legge di bilancio per l’anno 2021 da parte della Camera dei rappresentanti di Tobruk (est Libia) per alcune divergenze sulle voci di bilancio presentate dal governo.

La situazione è tesa: il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ha minacciato il premier Dabaiba di ritirare la fiducia al Gnu se il primo ministro non spiegherà in parlamento il 30 agosto perché il governo non ha saputo unificare le istituzioni statali. Un ultimatum che non preoccupa Dabaiba che ha fatto già sapere che quel giorno sarà impegnato in una visita ufficiale.

Un altro difficile nodo da sciogliere è la mancata approvazione della legge elettorale, punto chiave in vista del voto. L’Onu, con il suo inviato speciale Kubis, pressa da tempo sulla necessità di approvare la base costituzionale per lo svolgimento di «elezioni libere, eque e trasparenti» per il 24 dicembre. Ma gli sforzi delle Nazioni unite sembrano cadere nel vuoto: diverse fonti libiche ipotizzano già un ritardo di qualche settimana.

Non è poi ancora chiaro se si voterà sia per il parlamento che per il futuro presidente. Del resto la stessa organizzazione del voto è a rischio data la presenza in Libia di mercenari e forze straniere, nonostante tra i punti del cessate il fuoco raggiunto lo scorso ottobre tra ovest e est del Paese fosse chiaramente indicata la loro partenza.

Qualche passo positivo è stato però compiuto in questi ultimi giorni: l’istituzione di una forza congiunta tra milizie di Misurata (ovest) e Bengasi (est) per garantire la sicurezza del sistema idrico libico, soprattutto del Grande Fiume artificiale che fornisce il 60% di tutta l’acqua dolce utilizzata nel Paese. Così come segnali incoraggianti giungono dall’apertura lo scorso mese della principale strada costiera che collega Misurata a Sirte.

Ma resta forte la divisione del Paese tra Tripolitania (ovest) e Cirenaica (est), esacerbata a inizio mese anche dalle dichiarazioni riottose del capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar.

Il generale cirenaico, uscito sconfitto dall’offensiva che nel 2019 aveva lanciato contro Tripoli, ha detto che «non si sottometterà ad alcuna autorità». Un messaggio letto a Tripoli come un annuncio «d’insubordinazione» nei confronti del Gnu.

In questa impasse politica, c’è il dramma dei civili già duramente provati dai ripetuti blackout elettrici, dalla crisi economica e da quella idrica. E ultimamente anche dal Covid-19: secondo i dati ufficiali, i casi attivi sono 82mila con un tasso di positività al 23,7%. Solo ieri i nuovi positivi sono stati 1.613 su 6.792 tamponi effettuati,13 le vittime (4.165 dall’inizio della pandemia).

Ma la Libia è anche il Paese dei massacri: nel periodo che va dal 22 maggio 2020 allo scorso 17 agosto, 253 persone sono state vittima dei residuati bellici (103 i morti). Per il 70% erano civili.

Senza poi dimenticare gli orrori, come quelli scoperti in alcune zone rurali della città di Tarhuna (sud-est di Tripoli) dove da aprile sono stati estratti 45 cadaveri che fanno il paio con il centinaio già rivenuti in precedenza in altre 25 fosse collettive presenti nell’area. Una mattanza opera della milizia Kanyat (legata all’Enl di Haftar) per cui le famiglie delle vittime chiedono con forza giustizia.