All’una circa del mattino, il 5 maggio del 1981, Bobby Sands moriva dopo 66 giorni di sciopero della fame nell’ospedale del carcere di Long Kesh – detto The Maze, “il labirinto” – nella zona di Lisburn, a sudovest di Belfast. Vi era entrato il 1 marzo, e in quelle nove settimane e mezzo di calvario erano successe tante cose. Tra queste, il 9 aprile Bobby era stato eletto al parlamento di Westminster. Quando arrivò la notizia della straordinaria quanto inaspettata vittoria elettorale, il detenuto Robert Sands era già quasi immobile su un letto, avvolto in un pigiama imbottito per evitare che le ossa gli uscissero dalle articolazioni.

Sands fu solo il primo di una serie di compagni dell’Ira (Irish Republican Army) e della Inla (Irish National Liberation Army) a unirsi a quella protesta estrema, e nove di loro lo seguirono nella morte. Una morte divenuta, nel tempo, il simbolo di una lotta generale per la fine di ogni oppressione, per l’uguaglianza e contro ogni ingiustizia, ma che resta la battaglia di un gruppo di ragazzi animati dall’ideale di una repubblica socialista, che volevano vedere riconosciuti alcuni diritti basilari.

LA LOTTA DEI DIECI che morirono nel 1981 nasceva infatti da una richiesta ragionevolissima, persino banale: il riconoscimento del diritto a non essere considerati criminali comuni, ma prigionieri politici. Chiedevano, ad esempio, di non dover indossare l’uniforme carceraria o di potersi riunire e organizzare attività culturali all’interno del carcere, e persino quello di ricevere una visita, una lettera, e un pacco a settimana.

Tutti diritti negati dalla strategia della “criminalizzazione” e “ulsterizzazione” del conflitto voluta dall’allora iron lady, Margaret Thatcher, fino all’escalation dello sciopero della fame.

Bobby Sands, un proletario di nord Belfast unitosi all’Ira a diciotto anni, in concomitanza con l’eccidio del Bloody Sunday – quando i parà inglesi aprirono il fuoco su una folla che manifestava pacificamente per i diritti civili, uccidendo 14 persone – durante gli anni duri della prigionia aveva scritto che «soltanto la maggioranza della nazione irlandese potrà permettere la realizzazione della repubblica socialista», e che per questo «sarà indispensabile lavoro duro e sacrificio».

Era più che consapevole, Sands, che sarebbe stato lui il primo a doversi sacrificare. E il senso di quella scelta, a distanza di quarant’anni, non è soltanto un’eredità morale enorme, ma anche la visione di un lungo e annoso processo di pace, ancora in fieri per quanto oggi in evidente stallo.

TUTTAVIA, QUELLA DI BOBBY, la cui tomba è stata spesso, negli anni passati, vandalizzata da slogan e scritte fasciste, resta un’eredità per molti divisiva: anche in Irlanda, e anche nel fronte repubblicano. Puntualmente assistiamo a polemiche su chi prese davvero la decisione sulla sua fine, ad esempio. I detrattori della leadership storica di Sinn Féin ritengono che il partito l’abbia sacrificato per il proprio tornaconto politico e per accrescere il consenso. I compagni di partito e di cella parlano invece, in gran parte, di una sostanziale unione di intenti.

Gli scritti stessi di Sands, composti spesso in maniera precaria su cartine di sigaretta, pezzi di carta igienica o brandelli di Bibbia, e fatti poi uscire dal carcere in maniera clandestina (tra questi, molte bellissime poesie) ci raccontano di una decisione estremamente consapevole e di un fermo volere: la consapevolezza che gli inglesi non avrebbero mai mostrato pietà contro quanti erano da loro considerati criminali e terroristi, e il fermo volere di morire affinché un ideale potesse vivere, e perché un popolo unito potesse realizzarlo.

SUI GIORNALI DI IERI, da un lato si riprende l’annosa polemica che dipinge Sands e i suoi compagni quali strumenti del cinismo machiavellico di un partito, mentre dall’altro si parla di alcuni ritrovamenti fortuiti, venuti alla luce proprio in occasione del quarantennale, che smentirebbero questa vulgata.

Si tratta di una serie di comm (le comunicazioni dei carcerati composte e fatte circolare secondo la maniera sopra descritta) da parte di Sands e tanti altri, indirizzati a personalità politiche (tra cui l’attuale presidente irlandese) e religiose: comunicazioni mirate a far sostenere pubblicamente la lotta dei prigionieri politici. Una lotta che rimase de facto, prima dello sciopero della fame, silenziata nei grandi media; come anche erano silenziati, per legge, in quegli stessi anni, i membri di Sinn Féin.

Che la linea dei prigionieri fosse relativamente autonoma dal partito è oramai assodato, ma che i loro obiettivi di lungo termine fossero complementari appare un dato di fatto confermato dalla storia successiva.

Quel che resta di Bobby Sands e dei suoi compagni, oggi, è la eco del loro grido disperato in irlandese, Tiocfaidh ár lá (“il nostro giorno verrà”): un grido che continua a risuonare come monito, per un futuro incerto e tutto da immaginare.