L’ultimo lungo articolo postato da Tony Blair sul sito della propria fondazione (http://institute.global/news/brexit-and-centre), e ripreso dalla stampa italiana, pur incentrato sulle prospettive dell’Inghilterra alle prese con il processo di Brexit, riveste una particolare importanza per tutta l’opinione pubblica continentale. La presa di posizione di una fonte autorevole come l’ex Primo ministro laburista britannico da un lato ben fotografa l’apparente vicolo cieco nel quale si sono andate a cacciare le élite europee, dall’altro dimostra come le vecchie illusioni cullate per oltre un ventennio da quelle stesse élite siano dure a crollare, ed anzi vengano riposte a fondamento di un nuovo disegno egemonico.

RIFERENDOSI al referendum che ha sancito la volontà dei britannici di uscire dall’Unione Europea e all’avanzata del Labour di Jeremy Corbyn alle ultime legislative, Blair denuncia che «se al gancio destro della Brexit sferrato dal populismo conservatore dovesse seguire il gancio sinistro di una politica economica vecchio stampo sferrato dal populismo progressista, la Gran Bretagna finirebbe al tappeto». La destra che agita la questione nazionale e la sinistra che agita la questione sociale non rappresenterebbero dunque che due facce della stessa medaglia, una medaglia che la globalizzazione liberale pareva aver consegnato per sempre ai forzieri della storia (come se la globalizzazione non si fosse rivelata un potente strumento di edificazione di nuove gerarchie nazionali e sociali).

LA RICETTA confezionata dall’ex inquilino di Downing Street consiste nel rilancio di un disegno centrista che non si limiti a «reggere l’urto», per così dire, degli «opposti estremismi» in campo, ma che riesca a riavviare un’offensiva di cambiamento – in quale direzione non è specificato: «La sfida è trasformare il centro nel luogo che trasforma lo status quo, invece di gestirlo».

SI TRATTA di una riattivazione di quel «centrismo radicale» che era stata l’ideologia alla base del New Labour.

Di quel progetto si possono elencare tre caratteristiche principali: l’individuazione della base sociale cui affidare le chiavi della modernizzazione globale in una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui guardare come al perno della vita politica, in quanto strutturalmente capace di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto; la negazione della cogenza del conflitto sociale nella modernità occidentale (siamo tutti classe media), per cui la politica non è il luogo della rappresentazione di questo conflitto, ma quello in cui si escogitano «soluzioni» di carattere tecnocratico adeguate ai problemi che minacciano di inceppare il funzionamento del libero mercato – un meccanismo di per sé in grado di distribuire a pioggia equità su tutte e fasce sociali e sull’intero pianeta; la sottomissione, a tal fine, delle istituzioni democratiche ai meccanismi impersonali e tecnocratici della «governance», e la trasformazione dei partiti in agenzie incaricate di selezionare classi dirigenti adatte a «ben governare» l’intero processo: il sistema delle porte girevoli, in base al quale dirigenti di grandi banche di investimento e multinazionali «prendono il potere» in prima persona nei posti chiave del governo, mentre ex capi di partito – quelli di «sinistra» si sono rivelati spesso i più affidabili – a termine mandato si dedicano a intascare ingaggi miliardari per consulenze da fornire a quelle stesse banche ed imprese.

UN DISEGNO che continua ad essere riproposto, nonostante la crisi abbia spazzato via le illusioni su cui si basava, in Italia (Renzi) come in Francia (Macron) come negli Stati Uniti (H. Clinton). Ciò che queste classi dominanti, i loro mass media ed i loro portavoce politici intendono esorcizzare, quando strepitano attorno alla minaccia del populismo, è in realtà il ritorno della politica. La possibilità stessa, cioè, che le donne e gli uomini possano organizzarsi per cambiare i propri destini. Che arrivi qualcuno a disturbare il manovratore.

MA LA ROTTA che farà prendere alla nave questa azione di disturbo è ancora tutta da stabilire. Una crescita delle forze democratiche in questo contesto, per quanto auspicabile, non appare affatto scontata. In Francia ad esempio un’ipotesi neocentrista, come quella caldeggiata da Blair, ha sbaragliato il campo delle nuove alternative di destra e di sinistra; negli Stati Uniti era successo il contrario, con l’affermazione di un populismo di destra a scapito di un progetto – anche biograficamente – ispirato alla «Terza Via».

EPPURE TRUMP E MACRON hanno dato più di un segnale di intesa cordiale. In Grecia un’ipotesi di alternativa era sembrata prendere corpo su basi solide, prima che il governo tedesco riversasse sull’esperimento di governo di Syriza la forza dei propri interessi neo-coloniali. E proprio in Germania non si vedono segnali di un possibile rovesciamento di forze rispetto all’attuale egemonia democristiana, vero e proprio pilastro attorno al quale continua indisturbata la costruzione dell’Europa gerarchica ed autoritaria.

IN ITALIA il panorama non è consolante, con i disegni di grande coalizione che si apparecchiano dietro le quinte a salvaguardia dell’austerità; il M5Stelle che capitalizza ogni termine di insoddisfazione senza riuscire, pare, a tradurlo in un possibile disegno contro-egemonico; una destra razzista e aggressiva in via di potente riorganizzazione; e una sinistra minoritaria che rincorre il mito della propria unità senza saperlo riempire di parole d’ordine, battaglie e facce nuove.

EPPURE, se sono le stesse elite europee a riconoscere di essersi addentrate in un vicolo cieco, e se per uscirne ripropongono ricette vecchie di vent’anni, un progetto nuovo e credibile di ricostruzione del nesso tra popolo e istituzioni, conflitto e democrazia, si fa ineludibile.