Leggendo le interviste rilasciate in questi giorni da Massimo D’Alema notavo come le sue affermazioni mancassero della base argomentativa fondamentale per un «uomo di Stato in pensione» (così si è definito), cioè non fossero frutto di un’analisi a «tutto tondo», bensì di una narrazione largamente monca. Le ragioni dei larghi vuoti di questa narrazione mi sembrano emergere con chiarezza da alcune riflessioni di Fabio Mussi.

Mussi ha concluso un saggio pubblicato nel 2016 (Il gioco della zara) con queste parole: «Appartengo ad una generazione, nata nel dopoguerra, che evidentemente non ha retto la prova del potere. Ma la storia non è finita. Per riprenderne un filo, il senso di colpa può aiutare». E «senso di colpa», nel nostro contesto, non ha solo significato etico, ma soprattutto politico e, appunto, analitico. Si tratta di fare un viaggio all’interno degli snodi tramite i quali si è esercitata la «prova del potere» e indagare criticamente nel reticolo di rapporti profondi che legano gli effetti di quella «prova» al «momento attuale».

Per intervenire con credibilità sullo «spessore della crisi che stiamo vivendo» (Il Riformista 31 ottobre), e con capacità di individuarne, a tutti i livelli, possibilità di superamento, è necessario, ragionare sui nessi interni esistenti tra la fase attuale e la «struttura» costruita nei trenta non gloriosi. Non è, però, sufficiente. Bisogna, nello stesso tempo, essere definitivamente usciti dalla temperie politico-culturale con la quale si è operato per alcuni lustri. Questo può essere solo il risultato dell’uso, per la comprensione dell’oggi e dell’ieri, di categorie analitiche in contraddizione con quelle allora utilizzate. Per mutare davvero un paradigma radicato in un lungo periodo di «prova del potere», forse, «il senso di colpa può aiutare».

Ciò che emerge dall’intervista citata è un modo di affrontare il «momento attuale» restando del tutto interni alla logica della «contingenza». Il momento attuale, però, è un incrocio di percorsi, è un presente come storia e nello stesso tempo è una proiezione nella costruzione del futuro. D’Alema, che rivendica il suo ruolo di «politico intellettuale», ricorderà certamente la lezione fondamentale di Ernest Labrousse sulla necessità di pensare la «contingenza» nella logica della «struttura». Una metodologia analitica che è stata, ed è, un punto di non ritorno nei modi di ragionare sulla politica come momento della riflessione storica. Al di fuori c’è solo una politica che scivola sulla superficie lineare di quel magma composito, in profondità ed estensione, che costituisce la realtà.

È indicativo il fatto che egli usi la parola «errore», cioè «svista», «sbaglio», «inesattezza», una terminologia del tutto inadeguata ad indicare la costruzione di una «struttura». Ad indicare il lungo periodo in cui si è costruito il neoliberismo nella forma italiana con l’adesione convinta, la funzione da protagonista, esercitata dalla forza politica della quale D’Alema è stato il massimo dirigente e dai governi che ha presieduto o di cui è stato ministro di assoluto rilievo.

Il tutto in perfetta coerenza tra politica estera e politica interna strettamente coniugate nel processo di formazione del neoliberismo italiano come componente del neoliberismo mondiale. I bombardamenti a tappeto sulla Serbia furono un tassello della formazione di un nuovo ordine internazionale neoliberista. Il 1999 è l’anno chiave di questo nuovo inizio.

Nel 1999, Clinton abolisce la Glass-Steagal. Inizia la guerra in nome della «democrazia globale» contro la Serbia. Verso la fine dell’anno D’Alema, Blair e Clinton si ritroveranno a Firenze a discutere su «Il riformismo del XXI Secolo». Insieme hanno gettato le basi della globalizzazione neoliberista e l’hanno chiamata «riformismo». Un riformismo rovesciato come base di una «sinistra mondiale».

In una seconda intervista rilasciata in questo 6 novembre all’«Huffington Post», D’Alema, con riferimento al Max Weber de La politica come professione, ci ricorda che «la politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali» e che «il problema è scegliere i politici giusti».

Max Weber, in quel saggio che dovrebbe essere letto e meditato da tutti i politici per professione, fa un’attenta disamina per individuare il politico «giusto». Il politico che sa congiungere le fasi brevi con la fase lunga del «veniamo da lontano». Il politico cioè che «vive “per” la politica, fa di questa, in senso interiore la propria vita (…) il proprio equilibrio interiore e il sentimento della propria dignità con la coscienza di dare un senso alla propria vita per il fatto di servire una “causa”». Una causa da servire tanto nei tempi della «struttura» che in quelli della «contingenza».