C’è un seme che ha fecondato la terra degli uomini, anzi di quella speciale devianza di uomini che sono gli scrittori: una suggestiva sfiducia nell’umanità. Forse soltanto i fumi radioattivi sprigionati dal terrore termonucleare degli anni ’70 e ’80, lo scorso secolo, avevano generato una così ampia e variegata marea di opere da gusto distopico, romanzi, film, saggi, fumetti, pièces teatrali, visioni varie ed eventuali. Un futuro caratterizzato da quel che resta di una umanità incapace di contenersi, di riguadagnarsi un equilibrio con la natura e l’ambiente, tutta presa a conquistare spazi e spazio. Allora fu seminale la fantascienza di Philip K. Dick, Isaac Asimov e Frank Herbert, o il, ciclo di film innescati dal romanzo Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle.

Oggi, il clima impazzito, le minacce di estinzione di massa, lo scioglimento dei ghiacciai e la desertificazione hanno trasformato il clima, come oramai è evidente, quale vero centro della politica, anche se parte dei nostri governanti crede che sia ancora in qualche misura sviabile; ne saranno ovviamente tutti sommersi. La crescente attenzione che si sono guadagnate le nuove leve dell’ambientalismo è soltanto la punta dell’iceberg. Non può dunque stupire la quantità di storie scritte «à bout de la fin du mond» che ci raccontano di un pianeta in trasformazione e di una civiltà spinta sul baratro. Antonio Moresco, lo scorso anno, ha pubblicato Il grido, opera polifonica nel quale si parte dalla constatazione che le generazioni attuali sono le prime a fare i conti con una «estinzione di specie», la propria.
Stefano Mancuso, il Signore delle Piante, da anni ripete nelle sue conferenze che la vita degli uomini è agli sgoccioli. Esiste però una nuova genia di opere, che evitano il panorama catastrofico o metropolitano-fantascientifico, per ambientare storie e personaggi spesso assai bislacchi nelle terre marginali, in quei villaggi e vallate rurali, remoti, dove gli umani presentano qualcosa di arcaico, hanno sguardi da lupo, convivono con usanze medioevali, e paiono governare un senso di giustizia ben diverso dal nostro. Non è un genere codificato, dichiarato, è una sorta di indecisa forma di Neoespressionismo, o Neogotico agreste. Penso ad esempio a L’arminuta di Donatella Di Pietrantonio, a La ragazza selvaggia e a La metà del bosco di Laura Pugno, all’epica glaciale de La voce degli uomini freddi di Mauro Corona, o alle stranezze del piccolo mondo antico di Tamangur di Leta Semadeni.

Dall’Ungheria arriva, per i tipi de Il Saggiatore, l’ultimo romanzo di Adam Bodor, classe 1936: Verhovina Madarai in originale, Boscomatto. Variazione sulla fine dei giorni nella traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Nel villaggio di Jablonska Poljana circondato da boschi tetri e silenziosi, attraversato da un fiume misterioso e ghiacciato, abitano queste mezze figure, scolpite in quel che resta di una umanità disincarnata. Donne che resuscitano i morti, vagabondi con la faccia da cavallo, aruspici che predicono l’arrivo di ufficiali ungheresi su cavalli bianchi, cucitrici e traviate, guardiani di diga, brigadieri, veterinari, osti e animali. Ma non gli uccelli, scomparsi un’estate, volati tutti via. In effetti il mondo descritto non ci consente di aver le idee chiare su quando sia vero questo mondo. Potrebbe anche essere un villaggio gemello di Soreni, dove operava, a metà Novecento, l’accabadora, l’ultima madre, di Michela Murgia, o perché no, di Ombrosa, poco prima che il giovane barone decida di inalberarsi per sempre.