«La scelta di ciascuno, italiano o cinese che sia, è da rispettare: chi non se la sente fa bene a restare chiuso», a parlare è il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, cavalcando un misurato ma orgoglioso entusiasmo al netto delle stringenti misure di lockdown della prima fase pandemica. «La nostra città per molti era destinata ad essere il focolaio d’Italia», continua Biffoni, «Invece non è andata così, per molteplici fattori: una comunità cinese da subito attenta, che si è messa in quarantena e ha chiuso ristoranti ed esercizi commerciali preventivamente. Una cittadinanza pratese che nella fase uno ha rispettato rigorosamente le regole, con il distanziamento sociale e talune scelte anche dolorose come quella di chiudere le attività produttive. Un’organizzazione precisa dell’ospedale e del sistema sanitario, in una città dove forse più che altrove l’attenzione è sempre stata altissima. Le imprese del settore tessile hanno riaperto dopo aver firmato un patto tra parti sociali per ripartire mettendo in campo tutti i possibili accorgimenti a tutela dei lavoratori. Adesso è fondamentale non far salire la curva dei contagi, lavorare alle riaperture del commercio e dell’artigianato così come alla necessità di dare risposte a famiglie e bambini».

Camminando lungo Via Pistoiese, headquarter della comunità cinese locale, l’attenzione di cui parla il primo cittadino Biffoni si percepisce nitidamente: un quartiere in stand-by, col volto semi-coperto dai dispositivi sanitari, qualche bicicletta che lo attraversa frettolosamente, un ermetico silenzio ammanta le serrande abbassate degli esercizi commerciali. La consueta operosità cinese, quell’affaccendarsi instancabile che ha segnato intensamente l’ultimo trentennio della vita industriale locale, sembra acquattarsi, ora, dietro una cauta postazione di guardia, calibrando con discernimento accorgimenti e rischi da correre.

Come afferma Marco Wong, consigliere comunale italo-cinese: «Va detto che le misure di prolungamento della chiusura non sono una decisione condivisa da tutti, c’è chi ha scelto di riaprire comunque, nonostante la perdurante preoccupazione delle condizioni sanitarie. La paura maggiore è che la curva dei contagi possa riprendere a salire all’allentarsi delle misure di distanziamento sociale e la considerazione che al momento non vi sono ordinativi tali da giustificare gli eventuali rischi sanitari».

Ma il modello cinese a Prato, quel mix di collettività e buon senso che ha permesso il record degli zero casi positivi, si era manifestato già da prima dei decreti governativi di Marzo: «La maggior parte dei cinesi, tramite notizie e passaparola, aveva una forte consapevolezza di quello che stava succedendo nel paese di origine, perciò si è raccomandato a tutte le persone di ritorno di mettersi in auto-isolamento per almeno due settimane. Tale precauzione veniva condivisa anche nelle chat o tramite avvisi nei luoghi pubblici. In modo rudimentale e su base volontaria si è fatta circolare una lista delle persone appena rientrate dove si inserivano i propri dati: nome, cognome, numero di telefono, estremi di rientro e luoghi visitati, in modo che si potesse effettuare un tracciamento degli eventuali contagiati. Con un anticipo di due o tre settimane rispetto ai vari Dpcm, moltissimi genitori hanno preferito tenere i propri figli a casa esentandoli dall’andare a scuola. Inoltre, cosa non da poco, nella comunità cinese c’è già da molto tempo, e con una diffusione maggiore rispetto all’Italia, l’abitudine di fare uso di mascherine o pulirsi le mani con gel disinfettante quando si entra in luoghi pubblici e aziende».

Un messaggio fortissimo, dunque, quello della comunità cinese, anello di congiunzione ormai imprescindibile della filiera tessile pratese: considerando saltate le collezioni primaverili ed estive, e nonostante le ingenti perdite economiche derivate dall’assenza sul mercato per un tempo così prolungato, nell’occhio del ciclone, adesso, resta la tutela della salute di migliaia di lavoratori. Buona parte della comunità locale, va ricordato inoltre, è arrivata a Prato sul finire degli anni ’80 e ’90: si tratta di persone che rientrano nella fascia d’età per cui in Cina potrebbero godere della pensione, non è escluso che in molti stiano pensando di chiudere permanentemente le proprie attività dando avvio ad un fenomeno massiccio di rientro nel paese d’origine.

Scenari delicati, ancora ipotetici, dipingono l’orizzonte della città laniera che, stando ai dati, si è contraddistinta, in un momento di enorme vulnerabilità sociale condiviso, come prototipo di buona pratica ed efficiente gestione.