Giuseppe Ino Cassini, diplomatico italiano di lungo corso ed esperto di politica internazionale, ha consegnato al manifesto questo suo ricordo, di quanto incontrò Bo Xilai all’inizio della sua straordinaria carriera, quando il principino era governatore a Dalian. Nel ritratto e nell’episodio raccontato con sapienza da Cassini possiamo ritrovare alcune delle caratteristiche che vengono attribuite a Bo Xilai, con l’originalità e la particolarità di chi lo ha conosciuto e ha avuto modo di ritrovarselo di fronte davvero, potendone notare caratteristiche e importanti segnali di quella che sarebbe stata poi la sua storia. Attualmente Bo Xilai è in carcere, condannato all’ergastolo.

Un giorno d’autunno del 2003 ci trovavamo in delegazione nel nord della Cina, a Shenyang, invitati a pranzo dal governatore del Liaoning, provincia meglio nota in Occidente col nome di Manciuria. Arrivando al palazzo, riconoscendo le architetture degli anni Trenta, tornavano alla mente gli orrori dell’occupazione giapponese e la patetica figura di Pu Yi, l’imperatore fantoccio degli invasori.
Il governatore ci ricevette con stile da mandarino, un mandarino moderno. Ci fece sedere su soffici poltrone attorno a un tavolo rotondo, su cui il cameriere faceva ruotare con abilità da croupier un plateau-roulette pieno di raffinatezze fresche d’oceano. Davanti a me depose una zuppa densa, fragrante, su cui galleggiava un cavalluccio marino dritto sulla coda. Pareva fissarmi. Era vivo? Era morto? Come poteva restare dritto su se stesso? Lo guardavo interdetto senza osare avvicinare il cucchiaio al piatto.

Se ne accorse il governatore e con aria beffarda volle togliermi d’imbarazzo: «Tranquillo, non è vivo, e ha un gusto delicato come pochi altri frutti di mare». «Ma come può restare dritto?» chiesi. «Beh, i nostri cuochi sono maestri d’arte; e l’ippocampo ha una corazza ossea che gli consente di non piegarsi, di non strisciare come gli altri pesci». Tacque un attimo, diventò serio e a mezza voce disse: «Forse mi assomiglia».

Gli invitati si erano fatti curiosi. «Credo che sappiate – proseguì – che mio padre è stato uno dei fedelissimi di Mao e un politico di primo piano. Certo, questo mi ha permesso di frequentare le migliori scuole di Pechino. Ma sia io che lui abbiamo sperimentato il carcere e gli umilianti ricatti della Rivoluzione Culturale; a me chiesero di accusare mio padre; mia madre fu detenuta e morì di stenti. Io ho giurato di non piegarmi mai più alle follie dell’estremismo».

Quel governatore era Bo Xilai. Mentre continuava a parlare, io davo occhiate di sbieco alla mia tazza. Il cavalluccio era sempre lì ritto a fissarmi con i suoi occhietti e per un attimo mi parvero gli stessi occhi del governatore.

L’anno dopo Bo Xilai era già stato promosso ministro del Commercio e venne in Italia col premier Wen Jiabao. Io fui incaricato di accompagnarlo in visita a Firenze, a Pisa e ai poli industriali toscani. Davanti all’inclinazione della Torre di Pisa mi tornò in mente il pranzo a Shenyang, con l’ippocampo che non si era inclinato nella zuppa neanche un po’. Confessai al ministro di non aver avuto il coraggio di inghiottirlo, quel giorno. «Lei non sa cosa si è perso – ribatté scherzoso».

Durante la visita ai poli industriali – la Piaggio a Pontedera, le concerie a Santa Croce, il tessile e così via – faceva impressione notare la differenza tra lui e Wen Jiabao. Il premier, ingegnere e geologo, annotava tutto con sguardo da tecnocrate meticoloso; Bo Xilai, rampollo comunista laureato in storia e giornalismo, posava un occhio distratto sulle fabbriche e uno molto meno distratto sull’economia, la finanza e la politica italiana. Aveva lo stile, l’ambizione e anche la statura fisica (1,86) di un leader nato per comandare.

Difatti, la sua carriera procedeva a passo di carica: da sindaco di Dalian a governatore della Manciuria, poi ministro, membro del Politburo e infine segretario del Partito a Chongqing. Mancava un passo al traguardo finale: essere cooptato fra i 7 membri del Comitato Permanente del Politburo, il sancta sanctorum del potere. Ma la sua corsa si fermò a Chongqing, la “municipalità autonoma” più popolosa (29 milioni d’abitanti) e industriosa del Paese.

Quando andammo a incontrarlo nella sua nuova veste, la bruma in città era tale che non si vedeva l’altra sponda del fiume. Ma anche nella bruma spiccavano i cartelloni inneggianti al “modello Chongqing”, lanciato da Bo Xilai con piglio autoritario e subito interpretato come una rivoluzione neo-maoista. Ovviamente – si schermiva lui – non mi sognerei mai di tornare a tempi e modelli di cui noi stessi siamo stati vittime; però la strada imboccata dal mio Paese negli ultimi decenni rischia di portarlo alla deriva: troppo liberismo, troppa corruzione, troppa criminalità.
In effetti Bo Xilai aveva espugnato bande criminali e nidi di corruzione che impestavano la metropoli.

L’aveva fatto con metodi muscolari, ma questo non dispiaceva alla cittadinanza; e la sua popolarità era cresciuta nell’intera nazione, non solo lì, tanto da dare ombra alla compagine al potere a Pechino. Poi, come un fulmine a ciel sereno, sopraggiunse lo scandalo (la moglie fedifraga e omicida, il capo della polizia nel panico, lui stesso accusato di corruzione e abuso di potere), quindi la destituzione, il carcere e il processo.

Il cavalluccio marino era alla fine caduto dentro la zuppa? Non ancora. Durante la sua detenzione 700 personalità del mondo accademico e politico firmarono un appello in sua difesa. E durante il processo c’erano gruppi di manifestanti – cosa rara – fuori del tribunale di Jinan.

Alla fine Bo Xilai è stato condannato all’ergastolo. Ma si sta facendo largo in Cina una nuova sinistra che gli riconosce un carisma da cui trarre ispirazione. La sua condanna non segnerà la fine di questo movimento, anzi. Lo si è capito osservando l’altera postura dell’imputato alla sbarra, la stessa postura dell’ippocampo nella zuppa.