Una primavera febbrile. Venerdì 7 marzo la banca Centrale Ceca ha deciso di interrompere gli interventi sul corso della corona, che avevo portato negli ultimi tre anni e mezzo a una svalutazione parziale della divisa ceca verso l’euro.

La decisione era attesa. L’inflazione è tornata negli ultimi due mesi a viaggiare oltre il 2% annuo centrando così l’obbiettivo inflazionistico della Banca centrale. L’istituto inoltre ha dovuto versare sul mercato sempre più corone per difendere la svalutazione parziale.

Si stima che fino a marzo la Banca Centrale Ceca abbia riversato sui mercati finanziari più di due bilioni di corone equivalenti al 44% del Pil ceco. Anche per questo la Banca centrale non prevede di tornare a breve sul mercato.

«La banca centrale potrebbe intervenire solo nel caso di oscillazioni estreme dello scambio» ha sottolineato il governatore Jiri Rusnok. Nei primi giorni di corso libero la moneta si è rafforzata leggermente, senza shock analoghi a quelli subiti due anni fa dal franco svizzero.

Se per la banca centrale il conto dell’intervento è molto salato, a gioire della parziale svalutazione sono stati gli esportatori. Secondo la loro associazione, grazie alla svalutazione sono arrivati in questi anni trenta miliardi di euro di commesse in più.

I critici dell’intervento invece sostengono che la politica monetaria della banca centrale ha contribuito a tener bassi i salari e a rallentare la spinta innovativa del Paese. Dall’altra parte la svalutazione ha stimolato gli investimenti esteri, che hanno contribuito a affluire nel Paese.

Ma proprio rispetto agli investitori dall’estero sta montando un certo senso di malessere. Secondo le stime dell’Ufficio della Statistica solo l’anno scorso i proprietari esteri hanno ricevuto reddito dalla Repubblica Ceca per 15 miliardi di euro, circa l’8,4 percento di Pil.

Un dato simile si è verificato anche negli anni scorsi e risulta tra i più alti in tutta l’Unione Europea. «Non è normale che lo stipendio medio ceco non arrivi neanche allo stipendio minimo tedesco. In alcune situazioni il costo del lavoro ceco è inferiore a quello di alcuni cantoni cinesi» lamenta il presidente dei sindacati cechi Josef Stredula.

I sindacati hanno avviato nell’ultimo anno la campagna Basta con il lavoro a basso costo!, che sta cominciando a portare i primi frutti. Come sottolineato dall’Ufficio di Statistica la quota salariale sul valore aggiunto sta aumentando, mentre si riduce il tasso di profitto delle aziende che tuttavia rimane al 50%, dieci punti sopra la media dei Paesi dell’Europa occidentale.

I salari sono spinti dalla maggiore combattività dei sindacati aziendali e dal tasso di disoccupazione eccezionalmente basso. Che i tempi stiano cambiando, lo si percepisce anche da alcuni fatti simbolici: il premio di produttività alla Skoda Auto è stato quest’anno di 1.700 euro, mentre alla VolksWagen si sono dovuti accontentare di circa 500 euro. Tuttavia i salari alla Škoda rimangono molto più bassi che nella casa madre tedesca.

Nonostante una crescita del 4% nel 2016, lo stipendio annuale ceco è circa un terzo di quello tedesco e meno della metà di quello italiano.

La fine della svalutazione imposta dalla Banca Centrale Ceca avvicina sulla carta il paese all’adesione all’eurozona. Ma le forze di governo non sembrano scalpitare per sostituire la corona.

«Io non voglio l’euro, voglio che ci teniamo la corona» dice il vicepremier Andrej Babiš, il cui movimento ANO 2011 è dato dai sondaggi vincitore delle elezioni parlamentari di ottobre. I partiti più filoeuropeisti non hanno ora la forza per controbilanciare la volontà di Babiš. L’entrata in euro rimane quindi fissata a sine die.