In questi giorni si parla molto di Forough Farrokhzad, poetessa e cineasta iraniana, morta nel 1967 in un incidente d’auto, divenendo negli anni un’icona delle inquietudini rivoluzionarie in quel paese e non solo. Lei che cercava con ostinazione e bellezza un suo spazio in una società che anche ai tempi dello Shah – come sarà poi con gli imam – alla sua parte femminile non lasciava libertà di espressione e di vita costringendola a ruoli di marginalità. Anche se nel suo caso questa è forse una pregiudiziale in più, ciò che era insopportabile in lei era appunto l’ intelligenza critica verso la realtà che aveva intorno, la libertà delle sue immagini e poesie splendidamente dissidenti.

 

 

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Cinema ritrovato ha presentato il suo film, La casa è nera, all’interno di una rassegna dedicata al cinema iraniano degli anni Sessanta – ne ha scritto su alias della scorsa settimana con molta puntualità Sergio M.Germani – permettendo così la scoperta della cineasta, almeno in Italia, a un pubblico più vasto. Anche se, va detto, un vero e proprio rilancio, si deve alla iniziativa del bravissimo – e sempre avanti – storico del cinema (e tante altre cose) francese Bernard Eisenschitz, che nel 2004 ha editato il dvd di La casa è nera in un numero della sua rivista cinéma, magnifica, purtroppo finita troppo presto (per ragioni economiche). L’iniziativa comprendeva un bel saggio di Alain Bergala che tracciava le connessioni tra Farrokhzad e il primo Kiarostami – e altri scritti su Ebrahim Golestan, il produttore del film e suo compagno, autore a sua volta di Un fuoco (’58-61, girato con la Bolex in 16 millimettri) che era stato girato dal fratello, Sharokh, e montanto da Forough.

 

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Nel mondo, e soprattutto tra le giovani generazioni iraniane, La casa è nera è divenuto leggendario come la figura della sua autrice, una donna (Bertolucci che la conobbe ricorda che grazie a lei aveva conosciuto l’Iran non «embedded»), che appunto sfidava la società e quel regime violento con la vita e la poesia, che sapeva guardare e cogliere nel «battito degli occh»i il mondo. Scrive d’amore, di desiderio, di pudore e di innocenza: «Ascolta la mia voce lontana nella nebbia, densa dei salmi mattutini e guardami nella quiete degli specchi vedi come ancora con i resti delle mie mani sfioro le profondità oscura dei sogni reinventare, nel battito degli occhi …». Racconta la malinconia e la felicità di un’esistenza che non rinuncia a sé stessa, che non si fa cancellare dalle imposizioni e dagli ordini familiari, maschili, sociali, di scelte complicate che lei affronta con determinazione.
La casa è nera venne censurato in Iran, infastidiva per ciò che mostrava e per come lo mostrava. Girato in un lebbrosario poco fuori Tehran, dava volto, sofferenza, immagine a chi non aveva alcun diritto di averla. Per questo la cineasta venne accusata e anche denigrata, le dissero che aveva speculato sui lebbrosi, la giudicarono colpevole perché aveva preso con sé un bimbo del lebbrosario. Ma chi osava criticare o esprimere un pensiero critico allora (ma oggi se pensiamo a Panahi accade lo stesso) doveva essere annientato.
È importante dunque questa riscoperta, come le tante che permette il festival, un lavoro che lo rende prezioso.