Il vice premier cinese Zhang Gaoli ha appena parlato e lascia il microfono al neo eletto presidente filippino Rodrigo Duterte. La sala è gremita e l’occasione, nonostante l’ospite sia un piccolo arcipelago del Sudest asiatico finora ferreo alleato degli Stati uniti dal 1946, è davvero ghiotta. Duterte è chiaro e limpido com’è nella sua natura di oratore schietto fino alla maleducazione: «Annuncio in questo incontro – dice senza star a pesar le parole – la mia separazione dagli Stati Uniti, non solo in termini militari ma anche economici». Poi ci mette qualche battuta che solleva risate in platea. Il dado è tratto. Uno strappo era largamente annunciato ma non così. Non così netto e non in una cornice – la grande sala in piazza Tienanmen e dopo aver incontrato il suo omologo Xi Jinping – dalla quale un colosso in via d’espansione – economica, militare e politica – ha steso la sua rete da tempo per pesci piccoli e grossi.

Duterte va più in là: «Mi sono spostato nel vostro flusso ideologico e forse dovrò anche andare in Russia per parlare con Putin e dirgli che ci sono tre di noi contro il mondo. La Cina, le Filippine e la Russia». Cosa significhi questo riallineamento ideologico nell’ex campo socialista non è chiaro anche se è vero che Duterte ha cooptato nei suoi ministeri uomini dell’opposizione, ha deciso la riapertura del dialogo con i gruppi armati maoisti e si è dichiarato socialista durante la campagna elettorale («Socialista, non comunista. Noi socialisti siamo per il popolo»). Non è chiaro perché il profilo del socialista umanitario certo gli manca (nota la sua campagna di esecuzioni sommarie di criminali) e non è chiaro quanto di socialista rimanga in personaggi come Putin. Ma la scelta di campo, per ora solo dichiarata, mette sicuramente in difficoltà il vecchio alleato e fa sorridere i suoi nemici. Pechino incassa. Mosca ha già risposto con un gradimento che gli apre le porte. Duterte mette anche nel congelatore il problema delle isolette nel Mar cinese meridionale, da anni una delle cartine al tornasole delle relazioni tra gli Stati dell’area, la Cina e i grandi protettori occidentali, gli Stati uniti. Duterte sembra voler ridisegnare le alleanze in un pianeta – il Sudest asiatico – dove in cinesi han fatto passi avanti ma dove Washington resta il dominus e da cui la Russia appare oggi abbastanza distante. Le reazioni non mancano.

In casa prima di tutto: alcuni politici locali agitano lo spettro di un rischio troppo grosso considerato che gli Usa spendono nelle Filippine fior di milioni e che un recente sondaggio vede la popolazione più favorevole agli americani che ai cinesi, a dispetto delle manifestazioni di piazza pro-Duterte. In ballo c’è molto: l’accordo di cooperazione militare, firmato col suo predecessore, che consente agli Usa di utilizzare cinque basi aeree e navali nell’arcipelago, le imminenti esercitazioni militari congiunte non ancora cancellate ma soprattutto un asse strategico pensato proprio per contenere la Cina. Infine i 4,7 miliardi di dollari attualmente investiti da Washington.

Il capo del Pentagono Ashton Carter si limita a dire che gli Usa intendono conservare il loro alleato e anche il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby – che ha dovuto incassare gli insulti a Obama definito da Duterte “figlio di buonadonna” – getta acqua sul fuoco limitandosi a dire che verranno chieste spiegazioni su questa separation annunciata. Spiegazioni che saranno richieste da un assistente di Kerry – Daniel Russel – che ha in agenda a breve una visita a Manila. Ma a Washington sono preoccupati. La leva del denaro non può bastare se è vero che Pechino ha promesso accordi per 13,5 miliardi di dollari: c’è chi dice che bisogna puntare sui diritti umani, facendo la voce grossa su quei tremila tra spacciatori e e malviventi fatti fuori dalla polizia di Duterte da quando a giugno si è insediato. La partita è aperta.