L’erba è morbida, verde acceso, e anche gli alberi sembrano arrivati lì da poco. Il «buco» grigio polvere del mai realizzato nuovo Palazzo del cinema è scomparso, coperto da un giardino col décor bianchissimo in cui spicca il cubo rosso della neonata sala Giardino che ha inaugurato con il film di Kim Ki-duk, The Net.
La Mostra numero 73 si è aperta ieri sera, inaugurazione sobria in segno di solidarietà con le vittime del terremoto (niente party di gala e incassi devoluti ai paesi colpiti), dispiegamento di sicurezza che blinda la zona intorno al Palazzo. Paolo Baratta, presidente della Biennale, e Alberto Barbera, direttore della Mostra, nel rituale incontro con la stampa sono apparsi molto soddisfatti. Sulla carta il programma del festival ha già ottenuto il plauso della stampa straniera e loro hanno raggiunto gli obiettivi promessi: un nuovo spazio per le proiezioni e, soprattutto, restituire ai luoghi intorno alla Mostra piena vivibilità.

La prima conferma arriva dal film d’apertura, e anche il primo del concorso, il magnifico musical di Damien Chazelle, La La Land (applausi dalle prime sequenze alla proiezione stampa), omaggio al cinema del passato, agli indimenticabili tip tap amorosi delle grandi coppie classiche – Ginger Rogers e Fred Astaire – al jazz di Charlie Bird Parker, all’energia sognante di una narrazione sospesa tra canzoni e passi di danza – la coreografia iniziale nel traffico losangelino è straordinaria. Ma anche al sentimento della vita con le sue «sliding doors» che basta un attimo, alla follia fantasiosa dei cuori che fanno molti disastri (ma si rialzano con un sorriso). Alla città delle stelle – e delle stars – Los Angeles, a Hollywood e i suoi studios e tutto quello che ci ruota intorno: sogni e delusioni crudeli, sfide e cattiverie, feste e cocktail e promesse che scivolano via come il ghiaccio nel fondo del bicchiere.

Una storia d’amore. Lui e lei si scontrano, si incontrano, si innamorano, si lasciano. Il primo bacio potrebbe essere al cinema – seduzione laterale – guardando Gioventù bruciata ma la pellicola si «fonde» e così accadrà al Planetarium. Fuori Los Angeles sembra bellissima anche se: «Ho visto di meglio» ride lei. Mia (Emma Stone) fa la cameriera – ma vuole diventare attrice (lo diceva sempre Marilyn no?). Davanti al caffé negli studios dove lavora c’è la finestra di Casablanca, qualcosa di più che una casualità. Mia scrive anche commedie, one woman show, o almeno ci prova. E intanto passa da un provino all’altro, roba da serie tv, poliziotto, medico, ragazza incazzata…

Sebastian (Ryan Gosling) suona il piano. Vorrebbe aprire un suo club dove si suona il jazz, quello vero, non la roba che è stata tritata coi jingle da ascensori. Ma non ha soldi, non ha nemmeno un lavoro con quella fama di essere «a pain in the ass», un gran rompicoglioni, pianista da piano bar che ignora la scaletta e lascia che le sue mani vengano rapite dall’improvvisazione. Primavera, estate, autunno, inverno. I sentimenti seguono le stagioni, gioiosi sotto al sole, aggrovigliati nelle prime piogge. Ce la faremo a spiccare il volo e a realizzare i nostri sogni si chiedono i due ragazzi. Ma qualcosa va male, qualcosa corre troppo in avanti o troppo lenta, qualcosa che spezza la fiducia e l’ostinazione. Fuggire via e provarci ancora. Insistere o rinunciare, tutto è una sfida, anche l’amore. Chazelle aveva in mente questo film da molto tempo – il suo esordio era già un musical in bianco e nero omaggio ai classici della Mgm.

Anche se La La Land non è soltanto un musical sognante e romantico permeato dalla nostalgia vintage del passato – la superficie forse la più immediata, che fa del film già uno dei candidati privilegiati ai prossimi Oscar. Stone e Gosling non sono Rogers e Astaire, i loro passi di danza appaiono a volte incerti, persino goffi ma anche questo fa parte della sua scommessa. Il suo omaggio al genere (e a tantissimo immaginario che nel film si incontra) appare più come il tentativo di reinventarlo fuori dalla logica postmoderna, senza paura dei propri limiti, con la fiducia nell’energia del cinema.

Il regista (trentunenne) vi dissemina con intelligenza il presente, un cellulare che squilla interrompe l’incanto della canzone, il richiamo automatico dell’automobile che smorza la poesia, e una fragilità ugualmente contemporanea di stati d’animo e situazioni, la corsa folle e imprevedibile della vita – coi suoi detour senza rewind che si possono solo fantasticare, come un filmino super8 familiare più appassionante del sontuoso kitsch hollywoodiano. Carriera e successo, cosa significano, quale è il prezzo da pagare, quali sono i compromessi.

Per il ragazzo Seb una band molto commerciale – con John Legend, altra star musicale dell’r’n’b. Per la ragazza Mia un film senza copione, da girare a Parigi. Uno sguardo, le dita scivolano delicate sul pianoforte, lei è già lontana, altrove, la promessa del grande amore è svanita, rimane solo una canzone, la loro le cui note si smorzano piano.
Passato e presente si sfiorano nelle vite dei protagonisti e nel racconto di una città, Los Angeles, dove dominano l’industria di immaginario e la capacità di «venerare tutto e di distruggerlo». Un paesaggio urbano che cambia, che cancella il passato – la piccola sala cinematografica di classici chiude e il club jazz diventa tapas e samba. Ma non è solo questione di nostalgia, del graffio di un vinile o del rumore della pellicola.

Con ironia elegante Chazelle osserva l’ industria hollywoodiana e le sue nuove regole , come non riconoscere nel regista in ascesa si bordo piscina il «maestro» del reboot JJ Abrams – e al tempo stesso attraversa la «società dello spettacolo» coi suoi compromessi, i suoi format, la sua compiaciuta omogeneità. Restano i sognatori, quei «dreamers» che ancora ci provano con ostinazione a lottare per i loro desideri. Forse piccoli, forse senza fama eppure magnifici nella loro spavalda e delicatissima irriverenza. Zone imprevedibili dell’immaginario, quasi una rivoluzione.